Don DeLillo – L’angelo Esmeralda

Racconti scritti sulle macerie

recensione di Chiara Lombardi

dal numero di giugno 2013

Don DeLillo
L’ANGELO ESMERALDA
ed. orig. 2011, trad. dall’inglese di Federica Aceto
pp. 208, € 19
Einaudi, Torino 2013

“Norman sentiva la mancanza delle sue pareti, ma qui non stava poi tanto male. Era contenuto, diceva, scollato, slegato, lontano. Era libero dai bisogni gonfiati e dalle richieste altrui, ma soprattutto si era svincolato dalle suo pulsioni personali, dalla sua avidità, quell’obbligo di accumulare, ampliare, costruire se stesso”. La condizione di Norman, collezionista d’arte e detenuto per frode fiscale nel racconto Falce e martello (2010), potrebbe rappresentare il filo rosso della raccolta L’angelo Esmeralda di Don DeLillo, tradotta con la dovuta precisione da Federica Aceto.

Il personaggio è visto attraverso la lente del suo compagno di cella, un io narrante che ama la parola “spettro” e come tale si può definire, “una persona che entra ed esce silenziosamente dalla realtà fisica”, “un fluttuante sogno febbricitante”. Norman va a letto con i calzini, e questo particolare viene rilevato quasi fosse l’unico collegamento residuo con quel “sistema Terra”, palesemente vacillante se non a pezzi, che arriva ai due detenuti per frammenti televisivi, telegrafici bollettini economici di cui però viene registrata ogni sillaba. “Eravamo sempre accesi, volevamo essere accesi, avevamo bisogno di essere accesi, ma anche questo era ormai storia antica, l’ombra di un’altra vita”. “Storia antica” è il mondo fuori, illeggibile se non da una prospettiva eccentrica e con un linguaggio che ne decifri le mistificazioni, le follie e le forme di violenza. Ma la Storia, umana e disumana, è anche quella condensata nel simbolo dell’“acrobata d’avorio” dell’omonimo racconto (1988), tramite favoloso di una civiltà minoica che riaffiora nel contesto di una Grecia contemporanea minata da continui terremoti.

Norman e il suo compagno, appunto, non sono molto diversi dai personaggi degli altri racconti qui compresi e scritti da DeLillo tra gli anni settanta e novanta, collocati sulle macerie di un mondo devastato, descritto sfidando i limiti della scienza e le leggi della fisica (alle quali già si riferiva il titolo del romanzo White Noise, 1985; Rumore bianco, Einaudi, 2005). Nel racconto Momenti di umanità nella terza guerra mondiale, anche Vollmer e l’amico che viaggia con lui, altro narratore evanescente, sono distaccati dalla Terra, scollati e lontani. Impegnati in una missione in orbita, hanno smesso di descrivere la Terra “come se fosse un mappamondo”. La guerra ha cambiato il loro modo di guardare. Il nostro pianeta non può più essere rappresentato da un “linguaggio pittoresco”, da “vortice di tormenta, ardente luce marina, respiro caldo di nebbia e colore”. Vollmer ha ventitré anni, è un genio dell’ingegneria ed è in orbita per raccogliere informazioni a cui nessuno ha mai avuto accesso, ma nella sua navicella conserva gli oggetti del cuore (“oggetti di umanità”, per parafrasare i titolo del racconto: una foto di laurea, tappi di bottiglia, sassolini del giardino di casa sua). La sua maglietta da football è descritta come un “momento di umanità”. Eppure, se le domeniche sulla terra erano per lui di una lentezza estenuante, la vita in orbita gli dà una notevole soddisfazione. Mangia hot dog e croccanti di mandorle e ha l’abitudine di fare un pisolino su un’amaca. Perché non c’è nessuna nostalgia, in questi personaggi, per la vita dalla quale si sono allontanati, soltanto la presa d’atto di una distanza, di quel nuovo sguardo che li rimette reciprocamente a fuoco. “Per uomini così lontani dalla Terra è come se la forma fisica delle cose avesse l’unico scopo di rivelare la semplicità nascosta in una profonda verità matematica”.

Risulta interessante lo sviluppo letterario di questo mutato orizzonte di comprensione. Il personaggio che guarda deve monitorare, raccogliere immagini. L’aspetto più difficile, però, è trovare il linguaggio che, come un formula matematica e anche al di là di essa, sappia rendere tale orizzonte, sappia trovare la regola ma soprattutto l’eccezione capace di sintetizzare e trasmettere la realtà, il mondo contemporaneo che sarebbe fin troppo scontato definire semplicemente post-umano. Se la schiettezza mette a nudo il dolore, le parole devono mantenere una certa reticenza, rimanere aggrappate a un punto oscuro. Lo stesso vale per la felicità, che “non rientra negli eventi della nostra esperienza, almeno non fino al punto di avere la faccia tosta di parlarne”. Osservando Vollmer che guarda ciò che resta della Terra, la voce narrante non fa altro che osservare lo scrittore all’opera, “il poeta, il veggente primitivo, l’osservatore del fuoco e delle stelle cadenti”, il quale si appaga dello “spettacolo”, pur essendo cosciente che da quello stesso sguardo, in qualsiasi momento, potrà essere distrutto.

In L’angelo Esmeralda un gruppo di turisti europei si accalcano a fotografare una scritta affissa a un autobus turistico, “South Bronx Surreal”. Il tragico inferno metropolitano di vandalismo, violenza e malattia in cui si ambienta questo racconto non ha però nulla di surreale. Qui è tutto reale, grida la suora Gracie, uno dei personaggi dai nomi parlanti (Gracie rimanda a una “grazia” che non è data) o biblici (come Ismaele) che popolano questo ambiente e cercano di fare qualcosa di buono. I turisti non ne vedono che la suggestione superficiale, come se visitassero le rovine pittoresche di un mondo a cui non appartengono. Invece “Bruxelles è surreale, Milano, è surreale”, mentre quella è l’unica cosa reale. “Il Bronx è reale”: tra le siringhe e i graffiti dei writers, i topi e le foglie marce, dove “se sai di non valere nulla, solo un gioco d’azzardo con la morte riesce a soddisfare la tua vanità”. E qui la dodicenne Esmeralda è violentata e uccisa, per diventare subito un angelo disegnato con un paio di scarpe da ginnastica ai piedi. Ma potrebbe essere ovunque, nella confusione di miracoli sacri e profani, dove il terrore diventa immagine, spettacolo o santino che si sovrappone ai cartelloni pubblicitari, senza soluzione di continuità, in maniera tragicamente fluida.

chiaralombardi@libero.it

C Lombardi è ricercatrice in letterature comparate all’Università di Torino