Un’autobiografia di classe
recensione di Silvia Nugara
dal numero di settembre 2018
Didier Eribon
RITORNO A REIMS
ed. orig. 2009, trad. dal francese di Annalisa Romani
pp. 215, € 18
Bompiani, Milano 2017
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I rapporti di “classe” sono uno dei temi cardine della letteratura francese degli ultimi vent’anni. A chi ha relegato gli scritti di Annie Ernaux nel limbo osceno del “romanzo rosa”, è sfuggito il progetto di scrittura di un’autrice che ha inteso narrare l’intreccio tra personale e politico, dare voce alla vergogna come sentimento pubblico e infine “vendicare” la memoria del mondo subalterno di provenienza (si veda l’intervista Je vengerai ma race del 2008, sul sito “Mediapart”).
Ritorno a Reims di Didier Eribon è uscito in Francia quasi dieci anni fa proprio tenendo presente l’esempio di Ernaux, di John Edgar Wideman, del James Baldwin più autobiografico, ma soprattutto del Bourdieu di Questa non è un’autobiografia. Si tratta infatti di un testo ibrido, in cui l’autobiografia s’intreccia con l’analisi sociologica e il continuo va e vieni tra pubblico e privato permette d’interrogare il rapporto tra percorsi individuali e processi di riproduzione sociale.
Già autore di libri-intervista a Dumézil (tra cui Un banchetto di immortalità, Guanda, 1992), Lévi-Strauss (Da vicino e da lontano, Rizzoli 1988), Gombrich (Il linguaggio delle immagini, Einaudi 1994), di una biografia di Michel Foucault nonché di saggi di socioanalisi e di teoria della sessualità (Riflessioni sulla questione gay, Ariele 2015), Didier Eribon è stato giornalista e oggi insegna all’Università di Amiens. Il suo non è il profilo classico dell’accademico francese quanto piuttosto quello dell’intellettuale engagé d’ispirazione sartriana, come dimostra il suo impegno sul fronte dei diritti civili: nel 2004 è stato infatti estensore del “Manifesto per l’uguaglianza dei diritti” a sostegno del matrimonio egualitario, causa a cui ha dedicato un altro testo a metà tra scrittura del sé e analisi sociale intitolato Su questo istante fragile (Homolegens 2010). Con Sartre, idolo di gioventù (“preferisco essere stato sartriano che althusseriano”), Eribon condivide anche la concezione del soggetto seguendo la massima del “non sono ciò che le circostanze hanno fatto di me, bensì ciò che io ho fatto con le circostanze in cui mi sono trovato”.
Emanciparsi trasgredendo
In Ritorno a Reims Eribon si racconta come un “transfuga di classe” che, nato in una famiglia modesta, ha voluto emanciparsene grazie alla socialità gay e attraverso il sapere, cioè mediante due trasgressioni interdipendenti, una dell’ordine sessuale e l’altra dell’ordine sociale: “Eppure, quando si è trattato di scrivere, ho deciso di analizzare la prima, quella inerente all’oppressione sessuale e non la seconda, relativa all’oppressione sociale. E forse attraverso il gesto della scrittura teorica ho raddoppiato il tradimento esistenziale”. Il libro di Eribon è dunque anche il tentativo di utilizzare oggi una scrittura non esclusivamente teorica per compiere un ritorno a quelle origini tradite da cui non si fugge mai veramente: “Il nostro passato è ancora il nostro presente. Di conseguenza ci si riformula, ci si ricrea (come un compito interminabile), ma non ci si formula, non ci si crea”.
La rottura con una figura paterna livida di rabbia e umiliazione operaia, con il sistema di valori sessista e razzista di chi – privato di risorse simboliche e materiali – vive arroccato in posizione difensiva, non è solo una questione privata. Eribon la legge in termini sociali e politici interrogandosi altresì sull’allontanamento tra le forze della sinistra e quelle classi popolari che un tempo riconoscevano nel Partito comunista il partito per eccellenza in grado di rappresentarle e che oggi spesso votano per il Front National: “A chi possono rivolgersi gli sfruttati e i disagiati per sentirsi rappresentati e sostenuti? A chi possono riferirsi, appoggiarsi, per fornirsi di un’esistenza politica e di un’identità culturale? (…) O molto semplicemente: chi tiene conto di ciò che sono e vivono, di ciò che pensano e vogliono?”. Inoltre, l’autore riflette anche sulle miserie di un sistema educativo classista, che gli impedì, in quanto giovane provinciale proletario, di avere pari opportunità di accesso a una formazione d’alto livello rispetto ai coetanei borghesi.
La narrazione procede ad anello: prende le mosse dalla morte del padre e ad essa fa ritorno sul finale. Eribon si rifiuta di vedere l’uomo e preferisce non partecipare al suo funerale ma l’evento gli permette di intraprendere una serie di viaggi a Reims durante i quali, attorno ad alcune foto di famiglia, si ricuce un legame con la madre, ansiosa di recuperare il tempo perduto. In una di queste, l’autore non riconosce suo padre, da vecchio, il che innesca un processo di (ri)scrittura della memoria rivelatorio dei modi in cui certi meccanismi di assoggettamento si esercitano su persone umili quali i suoi famigliari: “Con una stretta al cuore ho ripensato a lui, rimpiangendo di non averlo rivisto. Di non aver cercato di capirlo. Di non aver tentato, in passato, di parlargli. Di avere lasciato che la violenza del mondo sociale prevalesse su di me, come aveva prevalso su di lui”.
silvia.nugara@unito.it
S Nugara è dottore di ricerca in Scienze del linguaggio e specialista in studi di genere