La società nigeriana in Culo nero
intervista a Igoni Barrett di Pietro Deandrea
dal numero di marzo 2018
Durante il tour italiano per presentare Culo nero, il 4 dicembre 2017 Igoni Barrett ha incontrato studiosi e docenti al Campus Luigi Einaudi dell’Università di Torino in una presentazione organizzata dal Centro piemontese studi africani: ecco alcune sue riflessioni, ispirate anche dalle domande del pubblico.
L’epigrafe introduttiva al primo capitolo cita Gregor Samsa: “E adesso?” Ormai troverà noiosissima questa domanda, ma è talmente ovvia da essere inevitabile: com’è nato questo spunto kafkiano per il romanzo?
Temo che la risposta sia ancor più noiosa. Nel 2011 mi trovavo bloccato ad Abuja: è la noiosa capitale burocratico-amministrativa della Nigeria, situata al centro della nazione, ma in quell’occasione tutto era fermo a causa di dimostrazioni contro il prezzo della benzina. Lì mi è venuta in mente l’immagine di un giovane nigeriano che diventa bianco mentre sta per recarsi a un importante colloquio di lavoro. Molto più tardi ho pensato di farne prima un racconto, poi un romanzo. Ma è solo dopo che ho cominciato a scrivere che mi è stata chiara la connessione con La metamorfosi, così sono andato a rileggere la storia di Gregor, e mi sono domandato: perché non esce di casa, perché non cerca di diventare il re degli insetti? La mia storia, comunque, voleva essere un romanzo sulla società nigeriana.
Il romanzo cita Frantz Fanon, studioso fondamentale per le sue riflessioni sul colore della pelle in ambito coloniale, e le sue ricadute sulla psiche del colonizzato.
Molti di noi tendono a considerarsi “postcoloniali”, e in certo senso alcuni aspetti del colonialismo appartengono veramente al passato. Ma allo stesso tempo, come nigeriano, vedo che certe cose (e i loro effetti devastanti) sono rimaste nel nostro inconscio collettivo, a partire dai processi di formazione dei paesi africani.
La forte presenza di creme sbiancanti nel romanzo è da vedersi come simbolica, quindi?
Soprattutto come estremamente realistica, direi. La Nigeria è uno dei più grandi mercati mondiali di questi prodotti. Tutti negano di farne uso, ma in realtà sono diffusissime, e hanno effetti collaterali devastanti, perché distruggono gli strati protettivi della pelle. Circola un’infinita serie di leggende su queste creme…
Accanto ai mostri sacri della letteratura mondiale, il romanzo prende vita grazie a una massiccia presenza di cultura popolare.
Già, incluso l’hip-hop… Frank Whyte, il nome assunto dal protagonista, è il nome d’arte che usava il famoso rapper The Notorious B.I.G. È stato divertente scrivere questo libro, ma anche rischioso, essendo il mio primo romanzo. Ho cercato di non preoccuparmi troppo delle opinioni altrui, e di far venire liberamente fuori dal mio subconscio tutta una serie di riferimenti con cui sono cresciuto.
Compreso il pidgin english, la lingua dell’oralità in una città come Lagos.
È una lingua importante per un grandissimo numero di persone, un miscuglio di inglese sgrammaticato e lingue native (Hausa, Igbo, Yoruba), una “zuppa di lingue” che per molto tempo non è stata considerata come una lingua vera e propria. Non è usata dalle persone istruite, se non in contesti informali o scherzosi. Ma inevitabilmente negli ultimi anni compare sempre di più nei libri, soprattutto in letteratura, e non potrebbe essere altrimenti: è la lingua della strada.
Non avevo mai letto un intero capitolo di romanzo, più di dieci pagine, fatto di messaggi twitter.
Mentre scrivevo il libro ho dovuto togliermi dai social, interferiva troppo con la stesura. Per darmi una disciplina, perché tendo ad avere una personalità piuttosto ossessiva. Ma poi mi sono accorto che in un libro come questo, centrato sull’identità, non era possibile ignorare certi fenomeni dove le persone indossano continuamente una maschera. Ed è anche una questione di verosimiglianza: in Nigeria, se cerchi una persona scomparsa, l’utilizzo dei social è molto comune. La sorella di Furo fa proprio questo, anche se poi ri-twitta su tutta una serie di argomenti piuttosto futili, che aprono squarci su risvolti più ambigui della personalità umana: è la schizofrenia dei social media, che ci sta invadendo la vita.
A proposito di correre rischi scrivendo un romanzo, c’è poi la questione del genere: l’altro protagonista, l’autobiografico scrittore Igoni, arriva a cambiare sesso.
Sì, non volevo scrivere un romanzo solo su questioni di razzismo. Molti africani, intellettuali compresi, sostengono che il razzismo non esiste, in Africa. Ma entrando a far parte della minoranza bianca, Furo viene privilegiato, e questa è discriminazione: se la maggioranza vede la minoranza bianca in questo modo, a quale conclusione dobbiamo arrivare? Non è boomerang racism, questo? E il pregiudizio di genere è un’altra grande questione: persino nel Regno Unito sussistono disparità salariali, e la Nigeria è una società ciecamente e orgogliosamente patriarcale. Forse può essere un rischio esagerato, includere anche questo nel romanzo, ma non importa: sentivo di doverlo fare. Mentre scrivevo, il mio paese criminalizzava gli omosessuali in vari modi, soprattutto per distogliere l’attenzione da questioni come la corruzione endemica. Bisogna trovare la volontà di essere coraggiosi, su certi argomenti. Alcuni mesi fa, un giovane scrittore è venuto a parlarmi durante un festival per dirmi che Culo nero lo ha aiutato a fare coming out.
Con l’assegnazione dell’ultimo Nobel per la letteratura sono riemerse polemiche sugli scrittori africani non premiati, come Ngugi wa Thiong’o.
Anche se non è stato ancora premiato, non significa certo che Ngugi non è un grande scrittore. I premi non sono sempre così significativi, se non per il fatto di incrementare le vendite. Il mercato editoriale conta, non c’è niente da fare: Culo nero, essendo pubblicato da un editore statunitense, ha fatto decollare la mia carriera: viaggi, traduzione, ecc… Il mio primo libro, pubblicato in Nigeria, neanche si trova più.
Qual è il suo rapporto con il pubblico di lettori nigeriano?
È un pubblico che sta cambiando. La classe media nigeriana è stata devastata dalle dittature militari dei decenni passati, costringendo molti ad andare in Gran Bretagna o negli Stati Uniti, inclusi insegnanti e intellettuali. Chi è rimasto si è ritrovato molto più povero, e ancora oggi la classe media è un gruppo piuttosto ridotto. Se così tanta gente si dedica alle frodi su internet è anche perché troppi nigeriani non riescono a vivere della loro istruzione. Ma dal 1999 abbiamo governi più affidabili. Grandi autori come Soyinka e Achebe hanno trascorso molto tempo a combattere le dittature, dai tardi anni settanta fino agli anni novanta: adesso, forse, ci sarà più tempo per concentrarsi sulla scrittura e le nuove generazioni, come Chimamanda Ngozi Adichie o Teju Cole, stanno concretamente creando un nuovo pubblico di lettori.
Uno spunto kafkiano per una storia ambientata tutta in Nigeria: non si considera uno scrittore afropolitan, quindi.
Mio Dio, no. Ma l’idea che si debba viaggiare per diventare un vero scrittore esiste, purtroppo: “com’è possibile fare lo scrittore in Nigeria?”. Quella di afropolitan è una definizione un po’ yuppie. Nella mia prossima raccolta di racconti ci saranno personaggi da ceti sociali molto più bassi di Furo, inclusi migranti che attraversano il Sahara.
pietro.deandrea@unito.it
P Deandrea insegna letteratura inglese all’Università di Torino
Nero e bianco ma soprattutto gagliardo: sul numero di marzo 2018 Francesca Giommi commenta Culo nero.