Le verità estreme del sentimento
recensione di Giulio Schiavoni
dal numero di marzo 2014
Arthur Schnitzler
SOGNI
1875-1931
ed. orig. 2012, trad. dal tedesco di Fernanda Rosso Chioso
pp. XXXVI-438, € 35
Il Saggiatore, Milano 2013
Si sa che, di fronte alle raccolte di sogni (tanto più se relative a scrittori affermati), il rischio è – per il lettore – quello di voler frugare nell’intimo, nell’inconscio altrui, di volerne cavare indizi per la vita diurna dell’interessato, cercare in quelle tracce della vita più privatamente “notturna” dati rivelativi riguardo ad atteggiamenti, ossessioni, manie, banalizzando così o neutralizzando quell’alterità rispetto al vissuto che perlomeno i sogni sicuramente testimoniano e rappresentano per tutti noi. Del resto, non saranno prive di una ragione plausibile le cautele e riserve nel divulgarli che hanno connotato lo stesso Sigmund Freud, che, non a caso, non volle pubblicare i propri sogni, nel timore che essi potessero incrinarne l’immagine e l’autorevolezza pubblicamente accreditata. E, d‘altro canto, è indubbio che ogni pienezza delle immagini oniriche emersa dal profondo può essere istruttiva e arricchente; il che può valere in particolare per i sogni mescolati tra le pagine di tanti illustri autori (da Shakespeare a Kafka, da Calderón a Borges e a Fellini, tanto per fare alcuni esempi), di cui a volte offrono amplificazioni o piccole chiavi interpretative.
È con questa duplicità di sentimenti, un misto di ammirazione e insieme di cautela, che occorrerà probabilmente accostarsi anche al singolare volume del viennese Arthur Schnitzler, medico, scrittore e drammaturgo di origine ebraica, ora tradotto in italiano, dopo essere stato salutato con ampi e pressoché unanimi elogi nel mondo tedesco al momento della sua pubblicazione nel 2012, in occasione della ricorrenza del centocinquantesimo anniversario della nascita dell’autore (che cadeva il 15 maggio 2012), ottant’anni dopo la sua morte, avvenuta nel 1931. Si tratta di un volume di gran pregio, per varie ragioni, non ultima quella di natura scientifico-filologica, dato che esso raccoglie per la prima volta nella sua interezza, sulla base del lascito schnitzleriano, la serie di sogni che egli ha registrato per oltre un cinquantennio (si tratta di ben ottomila pagine di appunti scritti a mano!).
Schnitzler era un grande interlocutore di Freud, un raffinato cultore del monologo interiore, che egli applicò a numerosi suoi lavori letterari, in cui mise a nudo la società viennese di fine Ottocento e del primo Novecento: un autore di cui il pubblico italiano ha già avuto modo di apprezzare testi straordinari, tra cui le pièces teatrali Amoretto e Girotondo, i racconti Il sottotenente Gustl e Il ritorno di Casanova, le novelle La signorina Else, Doppio sogno e Gioco all’alba. Era stato lo stesso Schnitzler a estrapolare, fra il 1921 e il 1931, dalla massa dei suoi appunti diaristici una parte consistente dei propri sogni, ad annotarli apportando anche qualche ritocco stilistico e a dettarli alla sua segretaria Frieda Pollak (la versione dattiloscritta pervenutaci si componeva di 428 pagine che giungevano sino alla fine del 1927). In questa occasione, invece, i due curatori tedeschi, Peter Michael Braunwarth e Leo A. Lensing, che hanno attinto al dattiloscritto presente nel Deutsches Literaturarchiv di Marbach, il cosiddetto Traumtagebuch, non si sono risparmiati: hanno proceduto con acribia e intento chiarificatore a riportare in versione integrale i circa seicento sogni schnitzleriani disponibili, affiancandovi (nella seconda parte del volume) un ampio apparato di note esplicative e un indice finale dei nomi, che si rivelerà, oltre che utile, a volte indispensabile, specialmente per chi non abbia dimestichezza con la cultura danubiana.
Sono tante minuscole tessere di un mosaico che finisce per essere – come felicemente suggeriscono nel saggio introduttivo Agnese Grieco e Vittorio Lingiardi – un “testo-laboratorio, cangiante e unico, di sincerità biografica persino dolorosa e al tempo stesso di anarchica bizzarria immaginifica”. Un mosaico che dà conto della straordinaria ricchezza interiore di un intellettuale attento a captare e a narrare, con assidua auto-osservazione (non priva peraltro di qualche discontinuità temporale), i moti o, meglio ancora, i tumulti della propria anima: si va dai sogni di uno Schnitzler tredicenne in cui si affaccia il suo primo amore giovanile al sogno del 10 ottobre del 1931 (risalente a poco prima della sua morte), in cui compaiono le figure di due donne amate: la scrittrice e traduttrice Suzanne Clauser e la cantante Marie Reinhard (la sua amante deceduta prematuramente e madre di un suo figlio nato morto). Un mosaico da cui si resta catturati, grazie alla forza surreale della narrazione onirica e a un linguaggio sincopato che sa rimanere scevro da ruvidezza, semplicioneria e schematismi. La sfera esperienziale che questi sogni abbracciano è quanto mai vasta: vi si registrano le mode dell’epoca, gli spettacoli di successo, le nevrosi, i vezzi, le debolezze del bel mondo absburgico e post-absburgico, sullo sfondo della guerra mondiale, della Vienna socialista, della precarietà esistenziale degli artisti ebrei, dell’odio antisemita che avvelena la vita culturale viennese (espresso nei sogni in figure come quelle di Richard Wagner e di Karl Lueger, sindaco della città), e persino dei nazisti (che in un sogno premonitore inseguono Schnitzler e Stefan Zweig).
Nei “residui diurni” dei sogni schnitzleriani vengono anche evocati altri personaggi del passato come Goethe (con la cui figlia il sognatore va a teatro) e figurano anche alcuni illustri contemporanei che vivacizzarono quell’inquieta e variegata Vienna fin de siècle che Hermann Broch definirà l’espressione del kitsch: da Siegmund Freud a Theodor Herzl, a Richard Beer-Hoffmann e allo schivo Gustav Klimt, da Hugo von Hoffmannsthal a Richard Strauss e Gustav Mahler, il compositore ebreo per il quale il sognatore ha una spiccata simpatia.
Quanto al protagonista, questi sogni ne lasciano trapelare senza veli – nella loro talora fulminea concisione – soprattutto la fiera dei sentimenti, che nella condizione onirica raggiungono stati di verità impensabili a livello diurno: “Risveglio in lacrime”, annota lo scrittore viennese chiosando un suo sogno del 23 luglio 1919. “Come sia che nel sogno raggiungiamo verità estreme del sentimento, delle quali la nostra vanità si vergogna nello stato di veglia, e che non sono quasi affatto vere per la nostra vita da desti”. Non a caso, a farsi largo in questi resoconti onirici sono specialmente i desideri e le paure, mostrando che la diade che fa da fil rouge dell’intero Traumtagebuch schnitzleriano è, in fondo, quella di eros e thanatos. Si pensi, ad esempio, alle innumerevoli scene di natura erotica e all’affiorare dei volti delle molte donne che Schnitzler ha desiderato o con cui ha intrecciato relazioni amorose. Non ultimo anche quello della moglie Olga, “l’unica persona” che nei sogni egli percepisca “con chiarezza allucinatoria”, specialmente dopo che la loro relazione è giunta all’esaurimento.
Oppure si pensi al ripetuto affacciarsi del tema dell’inermità, della caducità e della morte, come quando in un sogno del 26 settembre 1894 Schnitzler allora trentaduenne passeggia per Stefanplatz, nel pieno centro di Vienna, con un teschio in mano, o quando assiste addirittura al proprio funerale: “Questa notte un sogno spaventoso” annota l’8 settembre 1889, “arrivo troppo tardi al mio funerale, già mi aspettano (…). Mi angoscia coricarmi nella bara, allora mia madre cerca di incoraggiarmi”. Un sogno che si ripeterà più volte, facendolo sentire come condannato a morte, pervaso quasi da una malattia mortale, facendo emergere la sua natura depressa, quasi rassegnata agli eventi: sentimenti che appaiono particolarmente rimarcati nel periodo successivo al suicidio della sua amata figlia Lili (avvenuto nel luglio 1928), che gli produsse un fortissimo choc che si ripercosse anche a livello onirico, tanto che, a distanza di molti mesi, egli si chiedeva ancora se non avesse potuto prevederne le intenzioni: “Di nuovo il sogno che io so che Lili tra breve vuole uccidersi (…) io la supplico di non farlo (…) mi sveglio – contento che fosse un sogno – e solo nell’attimo che segue so che (…) so ciò che è già accaduto”); uno choc affiancato dal motivo delle pistole, che in seguito affiorerà di continuo (Lili si era sparata ricorrendo all’arma del marito).
Un elemento centrale di questi Sogni è naturalmente quello delle interferenze con la psicoanalisi e della relazione con Freud. Schnitzler è convinto che la psicoanalisi “apre le finestre dell’anima”, ma diffida soprattutto degli interpreti, in particolare degli psicoanalisti, che a suo giudizio approdano con troppa facilità all’inconscio, al quale accordano un’“eccessiva autorità”, mentre esso è “un territorio molto esteso” in cui si trovano “più interruzioni e intrichi di quanto essi sospettino”. È perciò comprensibile che nei suoi sogni affiorino, qua e là, anche le critiche vivaci che egli rivolge alla meccanicità del modello tripartito (l’Io agito dall’Es e minacciato dal Super-Io) e alla teoria freudiana dell’Edipo.
Non sarà ozioso infine ricordare che l’“osmosi tra vita e sogno” da cui Schnitzler, come sottolineato nell’illuminante introduzione dei curatori italiani, vede caratterizzata l’esistenza umana è stata anche un ingrediente saliente di vari suoi testi letterari. Si pensi ad esempio al sogno (che è forse un delirio) in cui la giovane protagonista della novella Fräulein Else (1924), sconvolta di fronte all’idea di subire l’umiliazione di mostrarsi nuda per denaro, arriva a vagheggiare il proprio funerale. Oppure al liberatorio sogno di Albertine, che su un prato fiorito si concede a un amante occasionale e vede che suo marito si lascia crocifiggere per fedeltà nei confronti di lei, nella celebre Traumnovelle (edita nel 1926 e nota in Italia con il titolo di Doppio sogno): una novella in cui, in un elaborato equilibrio simmetrico, le trasgressioni vissute o sognate dai due protagonisti (il giovane medico viennese Fridolin e sua moglie Albertine, improvvisamente coinvolti in una serie di conturbanti peripezie e “tradimenti”) faranno loro rivivere consapevolmente, nel reciproco raccontarsi, la propria voglia di sincerità e il desiderio di evadere dalla morale dell’epoca, percependo al tempo stesso la fragilità del loro mondo ovattato e del loro tranquillo ménage, riuscendo alla fine a ritrovare se stessi, senza tuttavia poter avere garanzie per il proprio futuro.
giulio.schiavoni@lett.unipmn.it
G Schiavoni insegna letteratura tedesca all’Università del Piemonte Orientale