Crossover tra cosmo e rivoluzione
di Giulia De Florio
dal numero di febbraio 2019
Wu Ming
PROLETKULT
pp. 333, € 18,50,
Einaudi, Torino 2018
C’era ancora un tassello da aggiungere all’ampio ragionamento sul concetto di rivoluzione che i Wu Ming portano avanti da anni sul fronte narrativo. Di rivolte era infarcito già il celebre Q, mentre la rivoluzione europea per antonomasia, quella francese, stava al centro de L’armata dei sonnambuli. Mancava all’appello uno dei più forti detonatori della storia del Novecento, quell’utopia che avrebbe in un modo o nell’altro cambiato radicalmente il destino di un impero: la rivoluzione russa. A essa poi è impossibile non intrecciare la prima guerra mondiale, altro tema caro ai Wu Ming, già affrontato collettivamente in L’invisibile ovunque, e più di traverso da Wu Ming 4 in Stella del mattino. Se quindi Proletkult parte da lontano, inserendosi in un solco già ben tracciato, si spinge altrettanto più in là, saggiando nuovi sentieri. Non siamo infatti di fronte all’ennesimo romanzo storico, non è questa l’intenzione degli autori: e a ben vedere la storia – la Rivoluzione e ancor di più la guerra – scorrono sullo sfondo della narrazione e quando balzano in primo piano lo fanno in maniera soggettiva, nel ricordo personale dei protagonisti. Il tempo qui sembra infatti più relativo che mai: l’azione si concentra nel 1927, in prossimità dei festeggiamenti del primo decennio rivoluzionario, ma molti sono i flashback e altrettanti i rimandi al futuro, a partire dalla copertina di Riccardo Falcinelli che è un rifacimento di un manifesto di Viktor Konstantinovič Votrin del 1966, nel momento cioè di massima spinta propagandistica al tema della conquista dello spazio.
Sulla scacchiera preparata dai Wu Ming si muovono diversi generi e sollecitazioni: storia e scienza, romanzo filosofico e detective story, in un intricato gioco di scatole cinesi dove si potrebbe facilmente perdere la bussola senza la – qui vale proprio la pena di dirlo – tectologica organizzazione del libro: 3 parti di 11 capitoli ciascuna, 333 pagine. L’ossessione per il modo in cui si organizza un sistema, politico o umano che sia, si fa qui struttura narrativa che scandisce i movimenti dei tre personaggi intorno a cui ruota la vicenda: Aleksandr Malinovskij, ben più noto con lo pseudonimo di Bogdanov, figura di grandissimo fascino nella Russia a cavallo tra Ottocento e Novecento; Leonid Voloch, suo compagno di lotta della prima ora, quando i “rivoluzionari di professione” sognavano forte ed erano pronti a tutto. E infine Denni, ibrida figlia di Voloch e di un’aliena di Nacun, il pianeta dove non si fanno “distinzioni tra fisica, biologia, letteratura”, caduta sulla terra in cerca del padre e diventata portavoce del progetto di interplanetarismo voluto dai nacuniani: “La verità è che siamo troppi, viviamo troppo a lungo, siamo troppo vecchi e abbiamo quasi esaurito le nostre risorse. Stiamo valutando la strategia migliore per espanderci nella vostra galassia, perché non si può fare il socialismo in un solo pianeta”. Il dibattito in realtà era già presente in Stella rossa, il romanzo di fantascienza che Bogdanov pubblica nel 1908 (appena riproposto in italiano da Alcatraz, nella traduzione del Kollektiv Uljanov, pp. 224, € 18, Milano) e che spunta di continuo nei dialoghi di Proletkult a far da specchio alla narrazione e possibile spiegazione alla “pseudologia fantastica” di cui soffrirebbe Denni.
Perché in quel primo Novecento russo che sembrava così incivile e arretrato in realtà si era verificata un’esplosione di creatività e immaginazione al servizio del progresso e della tecnica: lo scienziato Ciolkovskij scriveva di ascensori spaziali e missili a propulsione, in dialogo fitto con il filosofo Nikolaj Fëdorov che elaborava la sua Filosofia dell’opera comune e poneva le basi del pensiero cosmista, ipotizzando di fermare la morte e resuscitare tutti gli essere umani; l’inventore Termen metteva a punto la sua macchina sonora, il Theremin, che produceva vibrazioni senza bisogno di contatto; il corpo umano si esplorava con gli stessi principi della politica, secondo le regole del collettivismo fisiologico, il “comunismo del sangue” al confine tra scienza, filosofia e psicologia a cui Bogdanov stesso dedica l’ultimo decennio della sua vita.
Al centro di Proletkult dunque si pongono nuclei dialettici universali – il conflitto tra uomo e ambiente, tra padri e figli, tra passato e futuro inteso come passaggio di memoria – ma non si danno risposte; il libro lascia aperte tutte le porte, oscilla sottilmente tra scienza e fede (razionale), tra realtà e utopia. Come Bogdanov anche i Wu Ming guardano a una rivoluzione più profonda e più difficile: “Cambiare la testa delle persone è un processo molto più lento”, sostenendo da sempre che “se un romanzo non aiuta a capire meglio gli esseri umani, non è un buon romanzo”. Questo romanzo, dunque, è buono, e dà molto da pensare: “Non basta bruciare i pianoforti per dare il benservito a trecento anni di musica e non basta consegnare le fabbriche agli operai per farla finita con il capitalismo”, si ragionava all’epoca tra compagni. Ora che invece il capitalismo impera potremmo dire: forse non basta illudersi di poter produrre e crescere all’infinito, forse è ora di capire che per conservare la realtà bisogna cambiarla: “Ma per farlo bisogna essere capaci di immaginare un mondo senza prigioni. E Denni lo immagina eccome. Quanti di noi possono dire lo stesso?”.
julia.deflorio@gmail.com
G. De Florio traduce e insegna lingua e letteratura russa