Una straordinaria provocazione
di Mario Marchetti
dal numero di ottobre 2017
Spenti i fuochi delle polemiche che hanno accompagnato l’uscita di Bruciare tutto (pp. 369, € 20, Rizzoli, Milano 2017), ora si può tornare con maggior ponderazione a parlare di questo romanzo straordinario, nel senso letterale del termine, ovvero di fuori dell’ordinario. Un romanzo notevole, forse un grande romanzo. Diciamo subito, per poi accantonare la questione, che Walter Siti, questa specie di es incontrollato e incontrollabile o che gioca a farlo, ci ha messo del suo nel suscitare lo scandalo, dichiarando, in un’intervista a “Repubblica”, “Ho creduto che don Milani assomigliasse al mio prete pedofilo”. Dichiarazione ovviamente inopportuna per molti motivi (non certo perché Don Milani debba essere considerato un santino intoccabile) e che, soprattutto, lascia la sgradevole impressione di aver voluto far parlare del proprio libro a tutti i costi con quello stile da shitstorm mediatico tanto ironicamente parodiato da Siti nei suoi scritti.
La dedica a Don Milani ci sta invece tutta (malgrado le dichiarazioni successive di Siti che sembra volubilmente aver tirato il sasso e poi aver voluto nascondere la mano). Leo, il protagonista, è un prete scomodo, spigoloso, odiatore del compromesso. Esattamente come Don Milani. E come Don Milani pronto all’ascolto, non necessariamente alla comprensione (“Leo ha nostalgia di violenza, dell’imperscrutabile giustizia di Dio”). Leo stesso è un personaggio straordinario, dietro il quale in filigrana si intravede Siti che questa volta non compare in prima persona, è vero, ma inequivocabilmente fa capolino – compreso l’aspetto grassottello alla padre Brown – nel discorso estremo sviluppato da Leo nelle sue prediche non conciliate che allontanano i devoti. E non a caso. Vi si toccano temi delicati e complessi come quello del nostro gaio e turistico stile di vita, contrapposto alla nichilistica e orrorosa attrazione per la morte dei jihadisti.
Un Siti bulimico, onnivoro
Leo-Siti non si ritrae di fronte alle conseguenze più sconcertanti e paradossali della sua riflessione audacemente inscritta nella tradizione biblica (che mostra di conoscere assai bene), e non senza nessi col pensiero di filosofi ai margini dell’Accademia come Slavoj Žižek o Peter Sloterdijk. E tale riflessione emerge con tanta maggior forza perché immersa nell’oceano nullificante del birignao milanese, dove la capacità mimetica di Siti raggiunge vette arbasiniane, peraltro un po’ stucchevoli, come da protocollo. Talvolta Siti se ne lascia travolgere, abbandonandosi a battute queer non sempre di qualità superiore. È come se non riuscisse a non pronunciarle: è sempre il suo es impudente e un po’ greve a farsi largo. Ma il miracolo letterario e narrativo si compie: l’appassionato grido di Leo a un Dio che si nasconde risuona con sanguinoso strazio e pare ricordarci John Donne e il suo For Whom the Bell Tolls. Ci richiama alla nostra coscienza di uomini, di uomini di oggi. E non possiamo non amare Leo e le sue drammatiche debolezze. Insomma, da una massa inerte di materiale banale e fatuamente mondano, emerge il fiore tragico e goffo del nostro sacerdote.
E quanto a materiale inerte, Siti non si fa, e non ci fa, mancare nulla. È assolutamente bulimico, onnivoro: dalla gravidanza della Meloni, alla sdolcinata coppia Fazio/Littizzetto, alla Iris Berardi con il suo strap-on su Berlusconi (ce ne eravamo dimenticati, è materiale effimero, tra qualche anno tante allusioni e battute non avranno risonanza, ma è lo scotto che si deve pagare a tale impostazione narrativa), e non manca qualche aneddoto desublimante sui profughi africani accolti nel Rifugio, e neppure la Camusso (a cui non sarebbe piaciuta, riflette Leo-Siti, la sconcertante parabola dei braccianti agricoli dell’evangelista Matteo).
Simile contrappunto tra frivolezza e austerità innerva tutto il libro, ne è la chiave di volta: la battutaccia fa da controcanto all’aspirazione a Dio di Leo. Insomma, ci viene suggerito, non prendiamo questo sgraziato uomo del Signore con la radicalità delle sue parole, dei suoi pensieri, dei suoi atti troppo sul serio. È il controcanto che in maniera più calda e umana, anzi calda e umana, esegue Fermo – una bella figura che svicola dalla macchietta (come finiscono con l’esserlo molti personaggi del romanzo) − il parroco di San Carlo Lwanga con il quale il nostro Leo collabora nella Milano rinata, di nuovo da bere, del terzo millennio. Accanto a questo materiale, nel lutulento ma scorrevole romanzo ritornano materiali e personaggi declinati appena un po’ diversamente che abbiamo incontrato già in tanti altri romanzi di Siti: dal borgataro ex amante-ragazzino di Leo che ricorda altri amanti-marchette del Siti personaggio narrativo al banker Duilio, che non può non ricordare il Tommaso di Resistere non serve a niente, per non dire della valanga di materiale che si riversa dai media di varia natura sulla pagina. Come tutti gli autentici scrittori, Siti scrive sempre lo stesso libro. Ma questa volta è riuscito ad andare oltre (“Questo è il più inventato dei miei libri”, dichiara nella Nota finale Siti, e con ragione). Abilmente, da narratore di vaglia, ci guida a poco a poco verso il clou del romanzo (ci arriviamo quasi a metà testo), al grande tabù, il desiderio erotico nei confronti dei bambini; come lo definisce Siti: “Più ancora dell’incesto, l’assoluto tabù della nostra epoca; sacrilego per definizione”.
Espiare colpe non commesse
Chiariamo subito che a Leo piacciono i bambini, ma non pratica, non esercita; ha avuto un’unica storia da ventenne, non ancor sacerdote, col ragazzino Massimo, italo-bengalese. Nella chiesa ha cercato un rifugio, e pare avercela fatta. Si scandalizza, anzi, quando il vecchio e laido sacerdote da cui si confessa gli impartisce un’apologetica della pedofilia (e siamo alla vertigine del male in stile Salò/Sade). Ma a p. 166 Massimo riemerge dal passato, lui pacificato (a suo modo), ma Leo no, e precipita in una balbuzie incontrollabile e nell’angoscia (“Pazzia rovesciata sul mondo, pedofilia che si trasforma in furibonda, vorticosa, incolmabile ‘misopedia’, odio puro per ciò che cresce: un attentato al nocciolo medesimo della Creazione, se la vita è metafora della luce”). Siti ci aveva preparati al disvelamento del desiderio innominabile di Leo con l’estemporaneo episodio in cui un bambino di cinque anni all’Idroscalo mostra “tra i glutei serici un anello di immenso chiarore (che) emette segnali devastanti”. Come lettori ci eravamo domandati: perché?
A p. 210 entra in scena l’altro straordinario personaggio del romanzo, il bambino Andrea, figlio di una famiglia disfunzionale, intelligentissimo e per questo asociale, che si innamora – anche fisicamente − del grassottello e paziente Leo. Ma Leo adesso è armato, o crede di esserlo. Non cede alla seduzione. Andrea si suicida e, come in una tragedia sofoclea, Leo espia una colpa di cui non è colpevole dandosi fuoco ai bordi di una marana nella discarica di Malagrotta, dopo essersi dimesso, per lettera, da sacerdote. Dio non gli ha risposto, non ha risolto il suo problema: “Il primo azzurrino levarsi della fiamma, gli unici a vederlo sono stati gli animali: le gazze bianche e nere ne hanno ciarlato tra loro e hanno deciso che non era grave, i roditori dal basso ne sono rimasti terrorizzati e son corsi perché udivano lo stridio e sono corsi a rifugiarsi nelle tane melmose; un gabbiano sperso con interessi gastronomici ha seguito quella palla di fuoco nel suo avvicinarsi all’acqua poi all’improvviso fermarsi e crollare su se stessa. La bocca smisuratamente aperta, e l’urlo, non hanno avuto testimoni”.
Oltre l’hic et nunc
Dunque Siti sa scrivere. E la sua scrittura è anche intrisa di preziose reminiscenze letterarie: “Come può essere bella Milano quando il sole la premia e fa brillare i grattacieli come stoviglie nuove: nel cielo di febbraio completamente azzurro solo un cirro bianchissimo vaga come un cucciolo sperso. Ma in due punti dolenti, allo zenith, affiora un sospetto di impurità … Due cirri nuovi emergono tra le torri nella profondità del nulla e trovando enzimi favorevoli si fortificano, inspessiscono fino a diventare un’unica vera nube, nemmeno più bianca ma gialla e minacciosa verso il Parco Sempione. Sembrava tutto sereno e invece il celeste covava in sé questo magone: così il Male nasce dal Bene”.
Il suicidio del bambino Andrea è un rovello che insegue Siti dalle sue letture dei Demoni e di Giuda l’oscuro (non a caso questo citato tra i libri che Leo ama oltre ai racconti di Kafka, al Demone meschino e all’Uomo che fu Giovedì), libri che ci rimandano al mistero dell’esistenza e insieme alla sua miseria infinita e alla sua incomprensibile bizzarria. Andrea risolve col suo gesto una situazione insanabile, che gli adulti non sono in grado di risolvere, proprio come Little Father Time in Jude si suicida dopo aver ucciso i due fratellini e aver scritto con toccante sgrammaticatura Done because we are too menny. Il suicidio dei bambini ci interroga. Come scrive Siti “il realismo è l’impossibile”, “è l’antiabitudine: è il leggero strappo, il particolare inaspettato, che apre uno squarcio nella nostra stereotipia mentale”. Lo ha teorizzato nel suo microsaggio edito da Nottetempo nel 2013, e lo ha messo in pratica.
Della polemica sull’immagine del bambino Aylan sulla spiaggia di Bodrum, non mette conto parlare, per chi legga il libro senza pregiudizi e senza ricerca spasmodica del morboso e, diciamolo, con un tocco di intelligenza. Possono apparire forse inopportune le parole di Siti, ma non per questo sono meno interroganti. E d’altronde non ci pare che l’opportunità sia un suo problema. Non avrebbe scritto questo romanzo. Un libro spiazzante, in definitiva, e affascinante, e insieme irritante (non poche volte). Se vogliamo un libro religioso, se per religione si intenda il desiderio di aprirsi oltre l’hic et nunc, in un’epoca di “postdemocrazia irrimediabilmente chiusa a ogni istanza superiore”, in un’epoca in cui “il Male è quasi inevitabile perché impercepito e diffuso”. Si capiscono così i titoli disperati dei due ultimi romanzi di Siti: Resistere non serve a niente e Bruciare tutto. E si capiscono i gesti di Leo e di Andrea.
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M Marchetti è traduttore