Mitologia della crisi
recensione di Alessandro Cinquegrani
dal numero di dicembre 2015
Romolo Bugaro
EFFETTO DOMINO
pp 232, € 19,50,
Einaudi, Torino 2015
Il Veneto si presenta oggi, direbbero i sociologi, come un grande laboratorio sociale. Sede di un boom economico esponenziale e repentino alcuni decenni fa, è oggi teatro di una decrescita altrettanto repentina che lascia ferite impreviste, a volte indelebili. La cronaca ne parla quotidianamente con i suoi strumenti minimi, le notizie di suicidi di imprenditori in crisi, di aziende costrette a chiudere; e molti sono gli studi scientifici di matrice antropologica, sociologica, storica che cercano di spiegare il fenomeno, lo analizzano e discettano con i loro bisturi affilati.
Eppure è forse alla letteratura che spetterebbe il compito di ridefinire equilibri precari, di far comprendere, anche emotivamente, empaticamente, difficili riassestamenti di una società parossistica in molti suoi aspetti. Invece fino a oggi la prolifica narrativa veneta ha per lo più ripercorso sentieri noti, strade maestre proprie di un tempo già andato, tutto giocato sulla contrapposizione tra la trionfante cultura imprenditoriale e la marginale cultura umanistica, un confronto sempre vinto, nella realtà, dall’universo del denaro, rispetto al quale la parola scritta giocava le sue rivincite minime, ininfluenti, spesso rassicuranti per il lettore pigro.
Ma è il tempo di ripensarci, di abbandonare operazioni nostalgiche o rancorose, è il tempo, per gli scrittori, di guardare una realtà nuova, senza le facili strutture alle quali siamo stati abituati: è il tempo di Effetto domino di Romolo Bugaro. Perciò questo romanzo è una pietra miliare, una svolta capitale nella letteratura veneta: non solo perché per la prima volta racconta davvero la crisi economica in atto, ma perché ridefinisce il rapporto tra gli attori sociali che vi agiscono, sfidando il lettore a mettere in dubbio i propri preconcetti con gli strumenti della letteratura, l’emotività accanto all’intelligenza, la passione empatica vicino al ragionamento.
Perché Effetto domino è innanzitutto un romanzo, che si legge con piacere, con interesse, con la voglia di seguire lo svolgere degli eventi, l’evoluzione dei personaggi e dei loro rapporti. L’operazione della vita di Rampazzo e Colombo: duecentomila metri cubi, praticamente una nuova area urbana nella campagna veneta. L’emozione, l’adrenalina che sale, il bisogno di esserci, di organizzare, vincere. Finché, quando tutto è iniziato, qualcosa si incrina, per colpa di nessuno, beghe interne a una delle banche finanziatrici, ma tanto basta, tutto va a rotoli in quel micromondo imprenditoriale, e giù a catena, per i fornitori, i fornitori dei fornitori, i grandi e i piccoli, senza apparente colpa di nessuno. Eppure: “Fermarsi voleva dire perdere tutto (…). Nessuno avrebbe distrutto l’investimento più importante della sua vita”.
Da storia quotidiana a storia archetipica
È una storia reale, concreta, quotidiana. Ma è anche una storia assoluta, archetipica: la storia di uomini che lottano contro il proprio destino, contro una parabola ripidissima, crescente e decrescente, che dipende da loro solo in minima parte, come in guerra o in viaggio per mare. Sono uomini che conosciamo, fino a ieri ci guardavamo in cagnesco reciprocamente, oggi sembrano eroi imperfetti di mitologie spurie, furbi, truffaldini, colpevoli quanto e più di un Ulisse, ma di lui meno talentuosi e fortunati. Lo sguardo di Bugaro non fa sconti ai suoi personaggi, nulla nega delle loro colpe e delle ricadute su una terra scempiata, su una società amorale; ma quello sguardo è intriso della pietas che si riserva agli sconfitti, del calore, che solo la letteratura può dare, verso persone sbagliate, che non si devono assolvere nei tribunali, ma si devono comprendere sulla pagina scritta.
Per sua stessa ammissione, l’autore lavora al testo per sottrazione, non solo sulla lingua limpida, ma scavata e ellittica fino a far cozzare e stridere, a tratti, i periodi, ma anche sui personaggi, posti a volte volutamente fuori fuoco, con depotenziamento di identità, di verticalità. Ne risulta un quadro articolato di figure che si dissolvono in un luogo, in un ambiente: personaggi singoli che divengono un solo personaggio collettivo, lo stesso di cui si legge, quasi ogni giorno, sulle pagine dei giornali. Perciò è un libro vivo, che pulsa, che trasuda autenticità. Ma è anche un libro che guida, che fa capire che se la colpa è collettiva e non di singoli spietati e senza cuore, di tutti è la responsabilità di ricostruire un’etica civile, condivisa. Ma Bugaro non sputa sentenze, mostra e lascia che parole e cose agiscano autonomamente sul lettore. Certo l’autore conosce bene l’ambiente di cui parla, essendo un importante avvocato fallimentare di Padova, vive quotidianamente vicende simili a queste, ma non bisogna farsi ingannare: se questo può garantire l’onestà dell’ispirazione, di certo non è sufficiente a scrivere un romanzo di questo spessore. Questa è letteratura, e ha tanto di verità, di invenzione, di emotività, di capacità di osservazione. Spesso scrittori anche autorevoli, da Houellebecq in giù, hanno tradotto la crisi economica in crisi di valori dell’Occidente, qui l’operazione è più umile, e perciò più bruciante: la crisi economica è già, di per sé, crisi di valori, crisi come ridefinizione, e forse come ripartenza.
A Cinquegrani insegna letteratura comparata all’Università Ca’ Foscari di Venezia