Per una botanica dell’abbandono
recensione di Benedetta Centovalli
dal numero di luglio-agosto 2016
Pia Pera
AL GIARDINO ANCORA NON L’HO DETTO
pp. 224, € 15
Ponte alle Grazie, Milano 2016
Càpita che a un certo punto della propria vita si decida di cambiare vita, per cercare la felicità, per appartenenza, per maggiore fedeltà e intimità con se stessi. Càpita che quella scelta sia una scelta di vita, ma una scelta di vita legata a un luogo della terra, una specie di ritorno alla natura e al giardino segreto della nostra infanzia. Càpita che quella scelta ci salvi due volte, la prima dalla perdita di sé, la seconda volta dalla paura e dalla disperazione. Càpita che quella scelta sia la vita, anche quando la vita si sta indebolendo nella malattia.
Il racconto di Pia Pera si muove in un presente continuo, chiude e riparte come gli anelli concentrici di un grosso albero, al cui centro si trova il giardino-orto che da anni coltiva e cura. Racconto sapienziale e filosofico, confessione-dialogo con il lettore, diario di bordo di una malattia accettata come si può accettare una tempesta che ci sorprende in mare aperto, lettura sussurrata che porta in superficie l’ombra che non abbiamo ancora attraversato.
Il libro si apre su una poesia di Emily Dickinson, I haven’t told my garden yet, da cui è tratto lo splendido titolo. Il tema è il giardiniere e la morte, la scomparsa di chi ha ideato, pensato, accudito il giardino. Il suo venir meno come tradimento involontario, non colpevole, quando verrà il giorno in cui le sue cure non saranno più possibili e la natura tornerà a essere l’unica forza in campo. Mentre un pittore, uno scultore, un architetto, un poeta creano qualcosa che può vivere anche senza di loro, il giardino è opera effimera, transeunte, eppure…
Non lavorare il terreno, non diserbare, non usare pesticidi
Quando Pia Pera riceve in eredità un podere in abbandono nella Lucchesia, alle pendici del Monte Pisano, decide di rimetterlo in sesto e di abitarlo in pianta stabile, insegue così, lei, cittadina cresciuta sui libri, una passione antica. Le viene in soccorso l’insegnamento del filosofo e botanico giapponese Masanobu Fukuoka, maestro dell’agricoltura della non-azione, sintetizzabile in quattro principi: non lavorare il terreno, non diserbare, non usare concimi, non usare pesticidi. Non sarà applicabile a regola d’arte, ma la filosofia di Fukuoka – non contrastare ma assecondare la natura – ispira la composizione e l’allestimento del suo giardino-orto: un giardino «spettinato» e «in movimento», luogo della spensieratezza e di un certo disordine, delle erbacce e dei fiori spontanei, del selvatico (Gilles Clément) e del possibile.
Dopo alcune eccellenti traduzioni di Puškin, Čechov e Lermontov, e dopo l’esordio nella narrativa con La bellezza dell’asino (Venezia, Marsilio, 1992) e poi con Diario di Lo (Marsilio, 1995), originale riscrittura di Lolita dalla parte della ragazzina, la svolta di andare a vivere in campagna.
Riscopre la sua radice «inglese» con Il giardino segreto di Frances H. Burnett (tradotto per Salani nel 2005): «Era un libro dimenticato, divenuto ‘inconscio’. Forse proprio per questo mi si è insediato dentro come un copione interiorizzato, solo all’apparenza un istinto». E pagina dopo pagina nel libro L’orto di un perdigiorno (sottotitolo: Confessioni di un apprendista ortolano, Ponte alle Grazie, 2003, poi Tea, 2015) la scrittrice-giardiniera indaga la sua scelta, condivide con il lettore il suo cammino per arrivare alla conclusione positiva che sì, la felicità è possibile, e sì, anche la beatitudine.
Un tessuto narrativo di piante e fiori
Prende il via qui la sua scrittura del giardino-orto nutrita di competenze botaniche che si fanno ossatura del discorso narrativo con una doppia funzione, quella del racconto di un’esperienza personale, e quella di fornire al lettore informazioni utili a chi volesse iniziarsi all’orticultura. Un discorso orientato alla consapevolezza di abitare e di mettersi in ascolto del mondo animale e delle piante, un discorso che diventa stile, sostanza e responsabilità, etica del paesaggio. Nascono Il giardino che vorrei ( Electa, 2006; Ponte alle Grazie, 2015) e Contro il giardino. Dalla parte delle piante ( Ponte alle Grazie, 2007), scambio di lettere tra una falsa «dilettante» e l’amico-paesaggista Antonio Perazzi. Libri incatenati uno all’altro come una conversazione mai interrotta, man mano che si accrescono conoscenze, tecniche, aggiornamenti, riflessioni e stimoli, l’utopia possibile di un mondo vegetale: Giardino & Ortoterapia. Coltivando la terra si coltiva anche la felicità (Salani, 2010) e Le vie dell’orto. Coltivare verdura e frutta sul balcone, sul davanzale o in piena terra e difendere il proprio diritto alla semplicità (Terre di Mezzo, 2011).
Al giardino ancora non l’ho detto comincia con un leggero zoppicare, un difetto da niente, in questo modo Pia Pera scopre di avere una malattia grave e incurabile, la sclerosi laterale amiotrofica (Sla), una malattia che si mangia pian piano la vita normale, rendendo i gesti quotidiani sempre più difficili. Cosa cambia allora nel suo rapporto con il giardino? È qui lo scatto d’ala di una confessione aperta, sommessa, coraggiosa, che trova nel dolore della separazione una ragione ultima e illuminante di bellezza. Non avere paura del cambiamento, trarre sempre da quanto si modifica una rivelazione, una visione ulteriore e diversa che nonostante tutto ci rende capaci di lasciarci andare allo stupore, alla meraviglia che la vita riserva. Cosa cambia nel rapporto con il giardino? Cambia tutto, ci dice Pia Pera, non posso più vangare, zappare, tagliare l’erba, potare, sfoltire, fare buche, raccogliere frutti o ortaggi, portare a passeggio il cane Macchia. Eppure dopo il primo disorientamento, dopo la paura, sente una sorta di estrema serenità: «È cresciuta l’empatia. La consapevolezza che, non diversamente da una pianta, io pure subisco i danni delle intemperie, posso seccare, appassire, perdere pezzi, e soprattutto: non muovermi come vorrei». Le cure riservate fino allora al giardino sono adesso destinate alla necessaria cura di sé, come se lei stessa fosse diventata il giardino. E mentre si rincorrono riflessioni sul fine vita, sulla libertà di scegliere, fatte con gli occhi asciutti di chi vuole fino in fondo rendere conto di sé con dignità, la trama del racconto si nutre di quotidianità antica e nuova (le trasformazioni della casa fatte per risolvere i problemi di mobilità).
Pia Pera ricorda la visita nel suo podere di un’artista scandinava che mentre passeggiavano si fermava a raccogliere frutti secchi, foglie accartocciate, baccelli anneriti, spazzatura insomma, gesti che lei aveva rubricato tra le bizzarrie d’artista. E adesso che anche lei si sente come uno di quegli scarti, si domanda se quegli organismi in decadenza, in bilico tra conservazione e distruzione, non manifestino prima di venire meno una loro bellezza, un pathos insospettato, una grazia inattesa. In Giappone si chiama Kintsugi l’arte di usare l’oro o l’argento al posto della colla per riparare oggetti, una pratica che nasce proprio dall’idea che una ferita possa originare una migliore forma di perfezione.
Sentire la leggerezza interiore che nasce dalla libertà dal futuro e dal passato («La vita non ha altro scopo che la vita»), dall’immersione piena nell’attimo presente e dall’impermanenza nel «mondo fluttuante di trasformazioni continue» del giardino. Passare la porta stretta: «Le piante fanno così, cedono senza combattere, si piegano senza dolore, pronte ad accogliere qualsiasi altra vita sia in serbo per loro».
benedetta.centovalli@unimi.it
B Centovalli è editor, docente e critico letterario