Un’altra storia
recensione di Domenico Calcaterra
dal numero di maggio 2018
Paolo Del Colle
NUDA PROPRIETÀ
pp. 77, € 13,50
Melville, Cesena 2018
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L’autobiografia è la corda prima, il punto di convergenza e messa a fuoco della coerente parabola di uno scrittore appartato e rigoroso come il romano Paolo Del Colle (classe 1957). L’attraversamento dei territori della storia privata, tra disorientamento e desolazione, è stato l’orizzonte comune alle sue prove narrative precedenti (Le ragazze dell’Eur, 2001; Spregamore, 2014), che trova compimento in Nuda proprietà, atto conclusivo di una trilogia in cui l’autore certifica, in via definitiva, un non più invertibile percorso di allontanamento: verso un’altra dimensione, oltre l’incoincidenza tra fatica di vivere e verità semplice e inafferrabile della vita stessa. Alla comune intenzione di fondo si associa un radicalizzarsi dell’esperienza di scrittura, epperò sotto il segno della lima, della sottrazione, del frammento, se approda con quest’ultima fatica letteraria a una forma narrativa mista.
Si tratta di un libero diario notturno, un prosimetro che elude la questione dei generi, nell’assoluta necessità di operare un azzardo: dire della strada compiuta, dello smarrimento nello sfaldarsi dell’universo famigliare (di cui rimane la casa e il pieno delle vigili assenze), del passo nel dolore, che qui sopravvive come oblio di tutto ciò che si è amato e non vive più; a inseguire le orme di una memoria diversa, inconsapevole e sconosciuta (“dove sono anche io, dove è vivo ciò che la memoria non può trattenere o forse non sa nemmeno di possedere”). Oltre l’inevitabile sfasatura tra la vita in sé e l’avvertimento del suo stanco fluire, giunti allo sfinimento, alla mancanza di senso, la sola realtà riconosciuta da Del Colle come autentica – “flebile sopravvivenza” –, è quella consegnata alla parola scritta, campo di asindetica coesistenza degli opposti: aldiquà e aldilà, visibile e invisibile, verità e illusione. La verità stessa, per palesarsi, “si mostra nel trucco”, ne è inseparabile.
Come accade ai soldati in una sequenza di Segni di vita (1968) di Herzog, che si abbandonano alla meraviglia nel comprendere come sia possibile che una civetta di legno possa muovere gli occhi, apparire come cosa viva, e la verità assume le sembianze di una mosca sul dito. Ecco che il guizzo della verità scaturisce dall’intravedere una potenziale armonia, quell’assoluto che si presenta in un “sommarsi contemporaneo che annulla ogni addizione”. Per Del Colle, come per il Quasimodo di La terra impareggiabile, “il segreto ha margini / felici, stratagemmi, attrazioni difficili”: sta nella libertà di sapersi abbandonare alla fortuna della visione (entro un tempo “che è vortice di se stesso e si annulla”). Tutta la sua narrativa, e in maniera ancor più scoperta nell’essenzializzarsi del dettato in Nuda proprietà, per quel lasciare spazio al fulmineo racconto in versi, ha come genuina ossessione il rimandare a uno spazio epifanico che sta nelle cose o meglio accanto ad esse: nel campo d’esistenza d’una “prossimità inaccessibile”, a un passo sempre dall’evidenza. Paradossalmente, l’orizzonte epifanico che serpeggia in ogni pagina dello scrittore romano deriva dall’incapacità di “comprendere la nostra vita”. Dalla possibilità di andare oltre la perdita di senso, in mare aperto, verso quella “bellezza intravista” che richiede una grammatica inattendibile di segni e impreviste agnizioni (come a dire che la visione, l’epifania sta nel “vedercela”).
A fargli da Virgilio, in questo andare, l’amato Werner Herzog. Il libro di Del Colle – poema della spola tra visibile e invisibile –, laddove attinge all’universo poetico del cinema herzogiano, diventa anche un luminoso e visionario personal essay, utilizzando come entratura privilegiata l’ossessione per gli animali, ampiamente presenti nella filmografia del cineasta tedesco. Quell’occhio puntato sugli animali segna un disarmonico punto di equilibrio, apre uno spiraglio sulla distanza che ci separa “da un’altra vita, o dalle due facce dell’origine, la vita e la sua sempre perduta inviolabilità”. Essi rivelano ciò che ci approssima e insieme ci divide dalla vita: ciò che era potenziale e, senza realizzarsi, pur ci appare, appartiene, riguarda; e ciò che inevitabilmente saremo: la nostra scomparsa… Paradossalmente, l’orizzonte epifanico che serpeggia in ogni pagina dello scrittore romano deriva dall’incapacità di “comprendere la nostra vita”. Dalla possibilità di andare oltre la perdita di senso, in mare aperto, verso quella “bellezza intravista” che richiede una grammatica inattendibile di segni e impreviste agnizioni (come a dire che la visione, l’epifania sta nel “vedercela”).
Veri o finti, vivi o morti che siano, gli animali di Herzog sono l’esempio più evidente, per lo scrittore, del suo sgomento per questa incoincidenza tra noi e la vita; e fungono, ancor più, da detonatori di una possibile verità. La carrellata sugli animali (Il gallo, Il mulo, La cicogna, Gli uccelli, La civetta, I maiali) che appaiono in alcune pietre miliari della filmografia herzogiana, sembra apparentare le prose narrative di Del Colle a quella critica come autobiografia magistralmente praticata negli ultimi anni, tra gli altri, da uno scrittore come Fabrizio Coscia (Soli eravamo, La bellezza che resta). Che una lettura critica, tuttavia, sia sempre commisurata al vissuto di chi scrive, di chi tenta di ridefinire i mutevoli confini del proprio io, che sia un’utopica partitura per voce sola, ce lo ricorda proprio Paolo Del Colle con quest’oggetto misteriosissimo che è Nuda proprietà: dinanzi alla consapevolezza che la vita è andata in altro modo, per il critico-poeta sono le parole a farsi carico di raccontare “un’altra storia”, a sciogliersi in potenziale canto (“catturando l’aria di un’ennesima alba”), a coincidere, novello Fitzcarraldo, con una benedetta “creazione inutile”.
domenico.calcaterra@gmail.com
D Calcaterra è insegnante e critico letterario