Sulla strada di Laio
recensione di Filippo Polenchi
Orazio Labbate
SUTTATERRA
pp. 144, € 12
Tunuè, Latina 2017
Tra le fosforescenze del Petrolchimico di Gela – reale, fantasma, sognato – Orazio Labbate inscena una tragedia. Discesa ctonia e meditazione sul tempo ciclico Suttaterra – secondo romanzo dello scrittore siciliano, dopo l’esordio con Lo Scuru nel 2014, sempre per quella collana “Romanzi” dell’editore di Latina Tunuè accordata dal maestro di suoni Vanni Santoni – è anche e soprattutto una atipica tragedia sofoclea. Certo, dietro la storia di Giuseppe Buscemi, figlio di quel Razziddu che abbiamo conosciuto bambino nel precedente romanzo, “becchino di Milton, West Virginia”, che riceve a un anno dalla scomparsa della moglie Maria una lettera della stessa, che lo invita a raggiungerla in Sicilia, c’è quel “gotico siciliano” di cui Labbate, se non l’ideatore, è senz’altro un pioniere.
Gotico siciliano: un’atmosfera incendiata nella quale elementi tipicamente insulari e mediterranei (il Cristo dei Puci, la Madonna dell’Alemanna, la superstizione, il pesante sottofondo religioso, il “Sirpintazzu […] il rettile che si dice infesti la pianura gelese per guarire i pellegrini con la sua indivisa lingua di legno turchino” e altri riferimenti che gli antropologi o i lettori più curiosi sapranno senz’altro ritrovare) si legano ad altri tipici di quel “gotico” (il disfacimento, le visioni, l’aria malinconica di certi luoghi disastrati dove si esercita la “dominazione della morte”) che nella sua lunga tradizione da Walpone a Bram Stoker (il capitano del vascello che conduce Giuseppe Buscemi dagli USA a Gela si chiama Renfield come lo schiavo di Dracula) all’ultimo Thomas Ligotti Labbate ha indagato approfonditamente, a partire dai suoi articoli giornalistici.
Al cuore, una tragedia antica e rituale
Ma al di là di questo involucro fiammeggiante d’immaginari in stato precario, pronto all’esplosione, il cuore nero di Suttaterra è senz’altro quello di una tragedia. Tant’è che più dell’amato Ligotti le carni in metamorfosi perpetua, le ibridazioni biomeccaniche, le roventi superfici terrestri e le visioni del sangue e del fuoco appartengono all’armamentario mistico e visionario di Antonio Moresco. Una tragedia antica e rituale: lo scannamento della vittima sacrificale per acquisire il suo tempo. Via crucis perversa parrocchiale e catabasi la discesa di Giuseppe è soprattutto un viaggio epifanico a ritroso, alla ricerca del peccato originale che definisce (come il nano Alfonsino Scibetta, che ha il “compito di suggerire alle persone chi sono”), giacché “il viaggio di tutti noi è ciclico”. Ed è la stessa detection a cui sono sottoposti i personaggi di Sofocle, condannati a confidare nella propria libertà d’azione, ma costretti a percorrere le strade scelte dal Fato.
Le stazioni di questa formazione horror, fra lampeggianti schizzi di splatter e squarci cosmici di “non-mondi”, cosmogonie lovecraftiane, appartengono a una “terra di confusione e aridità” e “in cielo la contesa fra i sistemi astrali insidiosi” apre a molti personaggi: il nano Alfonsino Scibetta, il terribile Confessore, il proiezionista del Cinema Hollywood e poi lei, naturalmente, Maria, la donna che visse più volte, lei donna di luna e il suo doppio dirty, Nunzia Corvin, spogliarellista in un fatiscente night club arredato con trucida paccottiglia tex-mex.
Questo scrittore trentenne, che sente in maniera lacerante il problema del Male, sa bene che ogni tragedia è un dramma del linguaggio, “abisso della […] glossa da delittore”. E Suttaterra, raccontando un nostos lisergico e infernale, racconta anche la disgrazia di un “figlio cresciuto nella diffidenza per gl’idoli” che poi perfidamente è nutrito dal padre “con i suoi freschi esorcismi mariani”. Segni linguistici che definiscono un destino, un tempo circolare dal quale è impossibile uscire. E ogni tentativo di fuga è la perpetuazione del peccato originale per quest’uomo, nato sotto il segno di Laio: “la dominazione della morte” per “alleviare il dolore irreligioso della sua vita”. Sacrificio della carne, vendetta di un Dio “immanifesto”, follia religiosa e rabbia apocalittica.
Forse non tutto è ancora a pieno regime in Suttaterra: gli immaginari evocati si accumulano l’uno sull’altro e talvolta si ha l’impressione che l’addizione granguignolesca sia sul punto di tracimare, incontrollata. D’altra parte, tuttavia, Labbate scrive divinamente. Ha una prosa lirica, teatrale, pirotecnica, barocca. In tanti vorrebbero saper scrivere come lui, in Italia. Al di là dei modelli più o meno evidenti (Bufalino, Consolo, D’Arrigo) la voce dello scrittore siciliano è autorevolissima. E del resto non è detto che l’equilibrio possa essere una virtù assoluta. Lasciamo che il sangue bruci ancora a contatto con la terra ustoria di Gela, lasciamo che queste Mercedes Pilato con “verdi lucerne” sul cofano percorrano i cieli di un rosso Hammer verso navi spettrali e personaggi grotteschi. Lasciamo che gl’immaginari esplodano ancora e ancora, in un fuoco che ormai brucia da un po’ e continuerà a farlo.
filippo.polenchi@gmail.com
F. Polenchi è redattore editoriale