Una vertigine di purezza
recensione di Alessandro Cinquegrani
dal numero di febbraio 2015
Mauro Covacich
LA SPOSA
pp. 189, € 16
Bompiani, Milano 2014
La sposa è un libro importante nel percorso di Mauro Covacich. Dopo un decennio dedicato a ragionare su un solo tema, fondamentale per la letteratura, nella Pentalogia delle stelle, da A perdifiato (Einaudi, 2005) a A nome tuo (Einaudi, 2011), la sua narrativa viveva necessariamente un punto di crisi: crisi come nuova apertura, come necessità di rinnovamento, come bisogno di voltare pagina. L’esperimento (Einaudi, 2013), il romanzo che è venuto subito dopo, era ancora tutto impastato di quei temi, dell’ambiguità tra realtà e finzione, tra autenticità e artificio, tra volto e maschera.
La vera ripartenza è La sposa, e lo è in tutti sensi: nuovo editore, Bompiani al posto di Einaudi, nuova forma, racconto e non romanzo, come non faceva più da anni, nuovi temi. Eppure, come ogni ripartenza, quando è solida, matura, si fonda sull’esperienza passata, fa parte di un dialogo ininterrotto tra autore e lettori. Così, questo libro appare allo stesso tempo un’apertura al nuovo e un compendio del percorso passato. Lo stesso Covacich avverte, nella nota finale, che “questo libro è l’ideale continuazione di Anomalie (Mondadori, 1998)”, e però, per esempio, compare un racconto dedicato ad Angela del Fabbro, protagonista della Pentalogia ed eteronimo dell’autore nella scheggia impazzita Vi perdono, il cui vero nome, ci informa A nome tuo, è il notissimo Fiona, nata nel 2003 in A perdifiato e non più scomparsa. Convergono, insomma, in queste pagine, tutti i fili dell’esperienza letteraria di Covacich, che non cessa di cercare dentro di sé, in un sé violentato e ucciso forse dal reale, l’urgenza e la necessità della scrittura.
Eppure, tutto comincia prima della prima parola. Nel tessuto di relazioni che lega questo libro a tutti gli altri, infatti, gioca un ruolo centrale per la messa a fuoco del tema e per la comprensione del senso, la dedica “a Susanna”. Dove Susanna, che pure sarà una persona reale (questo poco importa ai fini della lettura di questo libro, contava semmai per l’altro in cui compariva), è anche un personaggio fondamentale di Prima di sparire, scabra e violenta, anche se ingenua, discesa negli inferi di un’inaccessibile realtà. E quel libro terminava con le pagine in cui persino lei, con i suoi grandi occhi nocciola, da fumetto, viveva l’esperienza assoluta e disarmante di perdere un bambino, e infrangere così la sua purezza contro un muro durissimo e invalicabile di realtà vissuta.
Ecco, il filo conduttore che lega i racconti di La sposa, la necessità di dire quel crimine senza colpevole della purezza improvvisamente sporcata, di quell’essere bicefalo (avere un figlio, essere madre) che quell’evento avrebbe potuto e forse dovuto creare e invece ha disperso per sempre. Così La sposa, per esempio, nel racconto che apre il libro, è l’artista Pippa Vacca che viaggiando per l’Europa in autostop in abito da sposa, vuole offrire al mondo la propria ingenuità e purezza, avendone in cambio annientamento e violenza. Oppure uomini ammirevoli, come Piermichele Paolillo, inventano una moderna ruota degli esposti, per salvare i bambini abbandonati rassicurando le madri che non rischiano nulla. I miei non-figli si chiama, del resto, una serie di racconti, nei quali l’autore collauda ciò che non è stato, simulando implicitamente la propria genitorialità (materna!) sul mondo intero nelle sue storie minime.
A volte, l’autore dice io, badando a far coincidere (o quanto meno avvicinare moltissimo) quell’io al se stesso che scrive, e si impone, per esempio, di affermare la propria dignità di non padre: “Ci dovete più rispetto, perché alla fine saremo noi a rimanere soli”; altre volte, immagina un proprio parto nella solitudine e nella sofferenza: “Immagino di avere una vagina. Immagino di avere un utero. Immagino di essere rimasto incinta per sbaglio”; altre volte cerca di penetrare la psicologia di un’infanticida. Ma la vertigine di purezza che il libro persegue in una rincorsa programmaticamente vana ha molte altre declinazioni. È più un modo di stare nel mondo, di guardarlo, di raccontarlo, che un oggetto o un’esperienza. È quello di papa Wojtila di fronte alle proprie tentazioni e al proprio peccato, è quello dell’uomo dei lupi, il cui desiderio (ingenuo, superomistico, puro?) di tornare alla natura si trasforma in tragedia, o ancora quello del cantante ambizioso e stonato, fiducioso e fallito, sorpreso da una morte precoce e impietosa come un destino.
C’è, poi, l’esperienza minima, quotidiana, che si infiltra tra le pagine. E si ritrova, così, il personaggio autore tra le vie, i locali, i parchi, di Pordenone e di Roma. È il personaggio che scruta la realtà, traendone un senso. Il personaggio che cerca ordine nel disordine, che cerca significati in ogni apparizione. A ogni pagina, ci troviamo accanto a lui, riviviamo il suo sforzo della ragione, il suo mettersi in crisi, il suo essere aperto al mondo, la sua ingenuità sottomessa speculare a quella della sposa. Proprio lì, l’intero libro trova la sua bruciante motivazione: “Lei lo sta facendo perché sta male. Come me. Abbiamo deciso di odiarci – in fondo anche la guerra aiuta – ma la nostra non è una questione personale. Io e lei siamo fratelli”. La nostra, verrebbe da aggiungere: quella dell’autore e quella di noi lettori. E la guerra: forse quella del bambino mal nato, l’ultimo, nell’ultima pagina. Quella virgola di vita tenacemente nata nel deserto umano, una tenue luce che significa la nostra definitiva e forse vana speranza.
cinquegrani@unive.it
A Cinquegrani è ricercatore di letteratura comparata all’Università Ca’ Foscari di Venezia