Marino Magliani – Prima che te lo dicano altri

Alla ricerca del padre perduto

di Claudio Panella

dal numero di gennaio 2019

Marino Magliani
PRIMA CHE TE LO DICANO GLI ALTRI
pp. 336, € 17,50,
Chiarelettere, Milano 2018

Prima che te lo dicano altri è un compendio della peculiare poetica della malinconia e dell’orfanità che Marino Magliani ha saputo consolidare di romanzo in romanzo ma è al contempo un’opera del tutto singolare nella carriera dello scrittore ligure e giramondo. Il libro è nato dalla proposta di Michele Vaccari, consulente per la narrativa italiana di Chiarelettere, di contribuire a una collana di testi ambientati in un avvenire ipotetico e infatti il racconto si svolge su due piani temporali. Fin dalla prima parte, intitolata La villa, il https://images-na.ssl-images-amazon.com/images/I/81atL9A9akL.jpg romanzo di formazione del piccolo Leo Vialetti, che conosciamo nel 1974 quando è ancora un bambino cresciuto senza padre nell’entroterra ligure, si alterna alle peripezie che cinquant’anni dopo, nel 2024, lo porteranno dal paesino di Sorba in Val Prino fino in Argentina. Il viaggio viene poi narrato nella seconda parte intitolata La pozzanghera con riferimento al nomignolo (el charco) dato dagli argentini all’Oceano.

A segnare l’esistenza di Leo è l’incontro con l’italo-argentino Raul Porti. Il giovane è proprietario di una villa nel paese del protagonista, che ha bisogno di ripetizioni scolastiche alle quali si aggiungono dimostrazioni su come curare le piante e praticare l’arte di fare innesti. Nel corso della lunga e indimenticabile estate del 1974, è per l’appunto Raul (il cui cognome rimanda al portainnesti) a innestare in Leo una vita diversa da quella conosciuta sino ad allora, con esiti forse imprevedibili o forse inevitabili che nel 2024 lo indurranno a far di tutto per acquistarne la villa in rovina e per andare poi a cercarlo in Sud America dove l’uomo è sparito nel nulla da cinque decenni. In Prima che te lo dicano altri il tema dell’innesto riprende il motivo della contaminazione, dell’essere anfibio, già declinato da Magliani in molti suoi libri recenti quali Soggiorno a Zeewijk (Amos, 2014), Il canale bracco (Fusta, 2015) o L’esilio dei moscerini danzanti giapponesi (Exòrma, 2017), i cui protagonisti sono figure ibride che l’orfanità di un padre o l’esilio dalla terra e dalla lingua d’origine hanno come amputato di qualcosa, intanto che le esperienze fatte in altri mondi li hanno come modificati geneticamente, rendendoli acutamente sensibili, talvolta ossessivamente melancolici. Non sempre esperimenti simili riescono senza effetti collaterali: lo scopre Leo trovando nella villa Porti “i resti delle piante trasformate in sgorbi, con innesti che avevano causato nanismi o ipertrofie, la morte di sole parti aeree, con deformazioni di ogni tipo, gigantismi. Erano le chimere: la linfa a un certo punto non aveva più circolato e le piante erano morte da sole, per conto loro, solo all’apparenza soffocate dai rampicanti”.

Il bambino malinconico Leo, cresciuto sovrappeso e senza padre (sensa paie è il soprannome regalatogli dai coetanei), diventa nella seconda avventurosa parte del romanzo un adulto capace di essere crudele e impietoso come gli hanno insegnato la vita e l’aspra campagna ligure. Secondo l’antica dottrina dei quattro umori, e dei quattro temperamenti umani derivanti da essi, a indurre malinconia e melancolia è proprio quello in cui prevale la bile nera che “imita la terra, aumenta in autunno, domina nella maturità” (così è riportato nel classico Saturno e la melanconia di Raymond Klibansky, Erwin Panofsky e Fritz Saxl, tradotto da Einaudi nel 1983). Ecco allora che l’influenza della terra e della bile portano Leo a sfruttare la sua esperienza di bracconiere per predare – facendosi inseguire – un torturatore patentato dei tempi della dittatura di Videla. La tragedia dei desaparecidos, che nessuna amnistia può alleviare, si incrocia quindi con la ricerca del padre del protagonista, mutando il registro del romanzo in un thriller sui generis, con molte attese e una fuga intercontinentale rocambolesca.

Non è un caso che lo stesso Magliani abbia tradotto da poco il romanzo Sudeste (Exòrma, 2018), pubblicato ora per la prima volta in Italia ma scritto nel 1962 da un desaparecido illustre, Haroldo Conti, scrittore notevolissimo, fatto scomparire dal regime nel 1976. E non è certo l’esotismo che Magliani cerca nel portare i suoi personaggi dall’altra parte di un mondo che, “forse dipendeva solo dagli occhi di Leo, si assomigliava tutto”, con la mitica città di Lincoln paragonata a “una specie di Locate Triulzi”, mentre la pampa sembra “un pezzo di campagna piemontese”.

Su ogni pagina di Magliani, non soltanto in quelle liguri con le valli ferite dalle speculazioni edilizie e dall’incuria ma anche nei passaggi più tesi ambientati in Argentina, risuonano echi biamontiani (al corregionale Biamonti, Magliani dedica in ogni sua opera omaggi segreti e non) e ritornano alla mente le parole spesso ripetute dall’autore nato in Val Prino: “Si scrive perché ci si accorge che la vita non basta a ricompensarci di ciò che ci è mancato”.

claudio.panella@unito.it

C. Panella è dottore di ricerca in letterature comparate all’Università di Torino