Scheda “Narratori italiani” dal numero di febbraio 2016
recensione di Daniele Piccini
Giuseppe Lupo
L’albero di stanze
pp. 252, € 17,50
Marsilio, Venezia 2015
Tra i narratori italiani delle ultime generazioni Giuseppe Lupo è uno dei pochi a presentare un profilo distinto e riconoscibile, lontano dalla media delle operazioni narrative coeve (nel suo apprendistato di scrittore ha avuto un maestro esigente in Raffaele Crovi). Si direbbe che sia un narratore senza intrigo, cioè un autentico e puro contastorie. I suoi libri sono intessuti di aria, di soffi, di geografie leggendarie, di invenzioni linguistiche e onomastiche, mai fini a se stesse, ma funzionali alla fantasticheria, a una sorta di sogno a occhi aperti che la narrazione si propone di realizzare. Così era Viaggiatori di nuvole (2013), così La sposa di Palmira (2011), per citare i suoi libri più recenti, fra i quali va ricordato, tra saggistica e invenzione, anche Atlante immaginario (2014). Quello che interessa a Lupo è creare mondi, evocabili con un effetto di sospensione e di incanto, che prima di tutto si realizza nel tono affabulatorio e onirico della sua prosa, capace però all’occorrenza di ancorarsi, di non ridursi a puro flatus vocis.
La casa, “parlamento di storie” e “bibbia di fiati”
Non c’è dubbio che il romanzo più recente dell’autore lucano rappresenti il suo tentativo più ambizioso. In perfetta continuità con la maniera che lo ha reso riconoscibile al lettore, l’autore si confronta qui più apertamente che altrove con i temi della memoria e del racconto, declinati a partire da una vicenda familiare che si trasforma tuttavia, nel concreto dell’opera, in una sorta di allegoria universale. L’albero di stanze è la grande casa verticale, costruita palmo a palmo, con innesti e deviazioni, dalla famiglia Bensalem, a partire dal capostipite, il bisnonno Redentore. Ma la casa, come il libro non manca di rilevare a più riprese, è “un parlamento di storie”, “una bibbia di fiati”, una “grande impalcatura di storie”. La casa, cioè, è la vicenda vitale di un secolo, il tempo perduto e ritrovato dal suo narratore, non sotto specie di memoria analitica, ma di rievocazione picaresca e fantastica. Sono gli ultimi giorni del 1999 e Babele Bensalem, il discendente della famiglia, fattosi medico e trasferitosi a Parigi (dove vive con la moglie francese e le due figlie), torna all’innominato e indefinito paese dell’epopea familiare, per assistere allo smantellamento della casa secolare. A fargli da guida, l’onnipresente guardiano Crocifossi. I muri parlano, anche se le orecchie di Babele sono chiuse, impedite a sentire i suoni reali. Sentono, tuttavia, quei respiri e quelle storie, si fanno magazzino di una vicenda che è quella di ogni famiglia e di ogni impresa umana. Non si tratta soltanto di preservare, ma piuttosto, raccontando, di liberare dall’involucro, di rendere permanente e vitale la sfida di ogni generazione che si è susseguita sulla terra.