Il problema della forma
recensione di Massimo Castiglioni
dal numero di ottobre 2018
Franco Cordelli
PROCIDA
pp. 233, € 16
Theoria, Rimini 2018
GUERRE LONTANE
pp. 320, € 18
Theoria, Rimini 2018
Sono quasi venti gli anni che separano la pubblicazione di Procida (Garzanti, 1973; una seconda edizione, modificata, è stata licenziata nel 2006) da quella di Guerre lontane (Einaudi, 1990), rispettivamente il primo e il quinto romanzo di Franco Cordelli. Anni segnati dal lavoro, dalla scrittura critica e romanzesca, da iniziative importanti (si vedano le celeberrime serate del romano Beat ’72 o del Festival internazionale dei poeti di Castelporziano, tra il 1978 e il 1979, raccontate in due libri fondamentali come Il poeta postumo, Le Lettere, 1978, e Proprietà perduta, L’orma, 1983), da intense riflessioni sulla letteratura, che nel caso di questo autore significano soprattutto riflessioni sul romanzo, sulle sue possibilità, sull’incrollabile e ambigua attrazione che questo genere continua a esercitare, anche quando diventa sempre più difficile pensare ad una sua concreta realizzazione.
Quasi un ventennio di maturazione, dunque, dominato da una grande fedeltà alla scrittura e da una personale idea di letteratura, che ovviamente arriva fino ai giorni nostri, varcando il limite del 1990. La casa editrice Theoria, lodevolmente, riporta in libreria questi due romanzi, più vicini di quanto non sembrerebbe se si pensa che in entrambi, pur con criterio diverso, è particolarmente sentito il problema della forma, non nel senso della bella scrittura, ma dello schema entro il quale incastrare la materia romanzesca, che nello specifico è quello del diario.
Di Procida viene riproposta l’edizione del 2006, arricchita da una nota di Cordelli scritta per quell’occasione – Ritorno a Procida, dove vengono spiegate alcune scelte alla base della prima edizione e le motivazioni della parziale riscrittura – e da una postfazione di Andrea Caterini; a Guerre lontane, invece, è aggiunta una postfazione di Niccolò Scaffai.
Come detto, è la forma diario a imporsi con urgenza. La differenza più grande tra le due versioni di Procida sta nelle date del diario: assenti nella prima, ripristinate nella seconda. Una scelta quasi censoria, quella iniziale, presa alla luce del difficile rapporto con l’idea di romanzo. Spiega Cordelli nella nota di cui sopra: “Il punto cruciale è questo: come si può avere la faccia tosta di scrivere (di voler scrivere) un romanzo quando tutto lo vieta e lo sconsiglia? Lo sconsigliava una qualche consapevolezza che la forma-romanzo, forma della narrazione moderna, era esaurita; lo sconsigliavano l’età dell’autore e il luogo in cui egli si trovava a scrivere: quale storia la sua età avrebbe potuto mai suggerirgli? E l’Italia di quei giorni, all’inizio degli anni settanta, quando il suo risveglio (alla modernità!), benché doloroso, era appena cominciato, che cosa, o quale prospettiva, gli avrebbe potuto fornire?”.
Se tutto impone un allontanamento dal romanzo e dalle storie, allora l’unica possibilità era tornare a una dimensione basilare della scrittura: il diario. Tuttavia, la tentazione del romanzo era troppo seducente per voltargli le spalle; tutto vietava una sua realizzazione, tutto spingeva perché si concretizzasse, anche contro le intenzioni dell’autore. Da qui la scelta di cancellare le date, di limitare la portata del diario, fino alla loro ripresa nel 2006. “Se oggi le ripristino è perché sono più interessato alla verità che alla vergogna, o meglio alla realtà oggettiva che a quella soggettiva”.
Una realtà che, nelle parole del narratore, rifugiatosi a Procida nel pieno del dicembre 1969, si sfalda e pare lasciarlo in balia di un vuoto di senso. La paternità, i fantasmi, la vita abbandonata a un’ora da vaporetto dall’isola, la situazione giallistica (che meno giallistica non si può) che si palesa dalle parti della casa dove vive e la scrittura stessa, diaristica appunto, ma che sfocia nel romanzo (come nota la figlia in una sentitissima lettera; la figlia, che a un certo punto torna a Roma, “e che è quasi un mio personaggio, e io un suo autore”): tanti elementi che cooperano per negare valore o senso all’esperienza, al suo bisogno di verità.
Diversa, nell’altro romanzo, la situazione del venticinquenne studente di restauro Lorenzo: dopo aver consegnato all’amica-amante Margherita il Quaderno di matematica, contenente il resoconto dei lavori di allestimento di uno spettacolo teatrale ad opera del defunto amico Bruno, questa lo distrugge, o comunque lo fa sparire. La lettura di Guerre lontane comincia quando il fatto è già avvenuto e Lorenzo sta tentando di riscrivere quel quaderno, di inseguire una forma perduta per sempre. Non più la descrizione di alcuni giorni, l’inseguire la realtà registrando i fatti “dopo”, come in Procida; qui, giocando con l’antico topos del manoscritto scomparso, si tratta di attingere una forma (e un’esperienza) perduta, necessaria origine di quelle successive, tanto più lontana quanto più la si cerca, persa nell’interminabile divenire della scrittura, della letteratura, e quindi del romanzo (unica e sola religione, con tutte le sue ambiguità).
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