Monologo anni settanta
recensione di Beatrice Manetti
dal numero di settembre 2016
Edoardo Albinati
LA SCUOLA CATTOLICA
pp. 1294, € 22
Rizzoli, Milano 2016
Ci sono romanzi che gravitano attorno a un buco nero: un nucleo che esercita un’irresistibile forza centripeta riconducendo a sé tutte le linee dell’intreccio, e al tempo stesso un sasso gettato nella realtà, dal quale si originano cerchi concentrici sempre più ampi. Il capolavoro più recente di questa forma narrativa lo ha scritto Roberto Bolaño con 2666. Oltre a essere un principio strutturale, il buco nero è molto spesso un luogo: fisico, ma soprattutto della mente, il vuoto intorno al quale il romanzo si avvita e nel quale è custodito il suo indicibile, che solo così può essere detto.
Anche La scuola cattolica appartiene a suo modo a questa categoria. Il suo buco nero è la villa del Circeo dove il 29 settembre 1975 Angelo Izzo, Andrea Ghira (nel romanzo «il Legionario») e Gianni Guido («Subdued») sequestrarono e seviziarono per un giorno e una notte Rosaria Lopez e Donatella Colasanti. Il delitto del Circeo non fu solo «uno scandalo», un «prodotto dei tempi» o un «produttore di tempi»; fu anche la rivelazione brutale di come la violenza di classe, ossia la violenza politica, potesse saldarsi con la violenza di genere – e che le battaglie politiche e la battaglia di genere non si erano saldate affatto.
«Uno spunto», lo definisce Albinati, innescato dal fatto di essere stato compagno di scuola dei tre assassini all’Istituto San Leone Magno – la scuola cattolica, all’epoca esclusivamente maschile, del titolo – e dalla ricomparsa sulla ribalta della cronaca nera di Angelo Izzo, responsabile nel 2004 dell’omicidio di Maria Carmela Maiorano e di sua figlia Valentina. Uno spunto, un pretesto: Albinati lo ripete tanto spesso che non c’è motivo di non credergli, considerati anche il basso potere gravitazionale e la debole forza propulsiva che quel fatto esercita sul resto del libro, dove rimane un materiale incoerente nella congerie di altri materiali incoerenti.
Radiografia precisa di un tempo e un luogo
Un spunto, dunque, ma per cosa? La cronaca, deliberatamente secca, del massacro compare per la prima volta a pagina 473, e viene dopo, nell’ordine: la presentazione di una classe di preadolescenti maschi del San Leone Magno, che alle soglie della pubertà sognano ossessivamente il corpo delle donne ma sono soggetti a una feroce educazione alla virilità che è innanzitutto educazione all’omosocialità; improvvisi affondi analitici nella psicologia dello stupro; lunghe analisi del declino della famiglia borghese nella topografia benestante del quartiere Trieste di Roma. Il delitto, ma più precisamente gli autori del delitto, e ancora più precisamente uno degli autori del delitto, Angelo Izzo, riaffiora trecento pagine dopo per essere notomizzato più a fondo nella sua fenomenologia di maschio fascista, cultore della violenza, omofobo e misogino fino alla patologia. Infine scompare di nuovo, mentre i compagni di classe di un tempo riprendono a turno la scena nel presente della narrazione, segnato ciascuno, e ciascuno a suo modo, dal marchio di quegli anni lontani.
Sarà chiaro a questo punto che La scuola cattolica nasce dall’ambizione di radiografare un periodo storico preciso (la seconda metà degli anni settanta) in un luogo preciso (la Roma borghese) a partire dagli indici che il delitto del Circeo vi proietta come ombre e che sono per Albinati le chiavi di accesso alla sua generazione, o meglio, ai maschi della sua generazione: il sesso e la violenza, nel momento in cui il sesso cominciava a corteggiare la violenza e la violenza a inglobare il linguaggio del sesso, facendo esplodere in forme eclatanti l’eterno, costitutivo conflitto tra i generi.
L’ambizione e la programmaticità di questo assunto ne farebbero in potenza un perfetto esempio di romanzo-saggio, come infatti è stato definito. Si tratta invece di un romanzo che non crede abbastanza in se stesso da diventare un saggio e di un saggio che non ce la fa a trasformarsi in romanzo perché non dimentica mai di essere (o voler essere) un saggio. È come se Albinati svolgesse il suo teorema tre volte: la prima nella forma del Bildungsroman, la seconda in quella della riflessione psico-sociologica, la terza in quella della narrazione memoriale – tre forme discorsive, forse non a caso, che escludono la dialogicità: la prima e la terza perché sono il discorso di uno solo, la seconda perché è il discorso di tutti, quindi in definitiva di nessuno. Tra una voce narrante saccente e incerta, apodittica e contraddittoria, ma onnipresente e tenacemente monologica (un paradosso, in un romanzo che si vorrebbe plurale ed eterogeneo, e che accoglie al proprio interno le forme di scrittura più varie: lettere, mail, interviste, deposizioni) e la voce impersonale del senso comune, che spaccia per sentenze le proprie ovvietà, a smarrirsi è proprio l’arte del romanzo, quell’arte per cui, secondo Milan Kundera, mentre lo scrittore tiene alle proprie idee e alla propria voce, il romanziere non dà grande importanza né alle une né all’altra, ma insegue una verità che ancora non conosce.
A mancare sono le donne
Forse non poteva che essere così, nel primo tentativo romanzesco di autocoscienza in pubblico e di analisi della maschilità, dei suoi stereotipi e dei suoi luoghi oscuri, da parte di un uomo della generazione che ha visto andare in pezzi la corazza patriarcale di quelle che l’avevano preceduta. Ma non è questo il tratto più inquietante, specie per una lettrice, del libro di Albinati. Sotto l’ambiguità di genere (nel senso del genere letterario) c’è un’altra, più profonda ambiguità di genere (nel senso dei generi sessuali), sintetizzata in una delle tante sentenze che costellano La scuola cattolica: «Premessa: prima di essere caucasico, italiano, battezzato cattolico romano, borghese, di sinistra e laziale, io sono un maschio. È questa la mia identità più ovvia, la discriminante, il mio carattere spiccato (…). Ho dunque più affinità con un musulmano povero, nato in Sudan, che con un’avvocatessa dei Parioli, o con la badante ucraina che prepara il brodo a sua madre». Il brano è in corsivo, quindi può darsi che a parlare non sia l’autore, ma uno dei suggeritori esterni ai quali La scuola cattolica deve «nove righe su dieci», come si legge nella nota finale. Non ha importanza: questa convinzione sconcertante, specie per chi sostiene di aver letto centinaia di testi femministi prima e durante la stesura, permea ogni pagina del libro, in una forma di radicale essenzialismo che oggi nessuna femminista (ma neanche Houellebecq) sottoscriverebbe mai e secondo la quale il maschio è maschio e la femmina è femmina per investitura biologica, e il sesso tra un maschio e una femmina un rapporto di sopraffazione/sottomissione destinato a perpetuarsi nei secoli dei secoli, come se il sesso fosse naturale per natura, anzi, l’essenza stessa del naturale.
Se questa convinzione sia davvero una convinzione, o non invece una forma di provocazione, risulta difficile dirlo proprio a causa di quella voce narrante così ambiguamente compiaciuta del proprio suono, così incapace di aprirsi al discorso dell’altro, e soprattutto dell’altra. Non sono soltanto le vittime a mancare in questo libro, come ha fatto notare Christian Raimo nella sua recensione su «Internazionale»; sono le donne in generale, fantasmatiche e onnipervasive, non dette perché non viste, indicibili perché invisibili, come lo sono gli indigeni in quello che è forse il capostipite dei romanzi del buco nero, Cuore di tenebra. Così, senza saperlo, la sua verità romanzesca il romanzo di Albinati finisce comunque per dirla: ed è che quella generazione di maschi ha risalito il suo fiume Congo scrutando ossessivamente una foresta che sapeva (e temeva) pullulante di donne, senza riuscirne a vederne davvero una, se non molti anni dopo, nel cuore di un orrore banale.
beatrice.manetti@unito.it
B Manetti insegna letteratura italiana contemporanea all’Università di Torino
Per acquistare il libro su IBS.it clicca qui