Il nudo fantasma
recensione di Lorenzo Marchese
Domenico Starnone
SCHERZETTO
disegni di Dario Maglionico
pp. 164, 17,50
Einaudi, Torino 2016
Domenico Starnone, come capita ai grandi scrittori, è un uomo solo con troppe vite (senza contare quella, appioppatagli a forza dai giornalisti, di Elena Ferrante): fra le più note, insegnante, giornalista, sceneggiatore, romanziere. Ma solo da romanziere Starnone si è applicato, senza riserve, nella confutazione delle sovrastrutture di senso che ci proteggono dalla verità della nostra precaria irrilevanza. È come se l’autore, nell’ultima fase del suo lavoro, si ostinasse a spogliare i suoi personaggi delle loro fedi e dei puntelli con cui si facilitano l’esistenza, non risparmiando nessuno degli ambiti che hanno inquadrato la sua stessa biografia: il lavoro di insegnante (in Prima esecuzione, 2007), il vuoto della liberazione sessuale post ’68 (in Autobiografia erotica di Aristide Gambia, 2011), la vita familiare (percepita con disagio sin dal titolo di Lacci, 2014). Così la scrittura accompagna sul fondo chi ha subìto la spoliazione, moltiplicando gli sguardi in cerca di un appiglio per salvarsi, invano: tramite opere concepite come macchine a orologeria, rapide e asfissianti, accompagnate talvolta da riflessioni a margine della narrazione in forma di appunti, note metatestuali, cambi di focalizzazione, Starnone scompone tutte le giustificazioni all’esistenza. Non ce ne svela i trucchi, ma ci fa capire che esse sono giochi ormai inservibili. Sgombrare il campo, tuttavia, non significa arrendersi a un nichilismo rassicurante: ciò che rimane sulla scena, incancellabile, è l’uomo lasciato solo e lucido in attesa di un colpo che non si sa da dove verrà.
Daniele Mallarico, il protagonista di Scherzetto, è l’ennesima variante di questo “condannato”: e non sorprende, viste le illusioni dissolte finora (sesso, lavoro, famiglia), che sia il turno dell’arte. Mallarico è un illustratore di successo che, da vent’anni a Milano, torna nella città natale di Napoli, a cui è legato visceralmente e con fastidio, per badare alcuni giorni al nipotino di quattro anni Mario, allorché i genitori (la figlia Betta e il marito Saverio) sono a un convegno universitario nel tentativo estremo di aggiustare il loro matrimonio. Oltre a sorvegliare il bambino, lavora per illustrare il racconto del 1908 di Henry James The Jolly Corner (l’ultima sezione Il giocatore giulivo riporta stralci del finzionale quaderno di schizzi preparatori). Se il rapporto fra un anziano misantropo e imbranato, vedovo da lungo tempo, e un bambino saccente e perfezionista potrebbe suggerire uno sviluppo comico, che punta sugli aspetti teneri e sulla vivacità delle interazioni fra i due, Starnone ne conserva solo lo scheletro, insistendo su un discorso angoscioso e ritornante. In realtà, i giorni di convivenza fra i due inscenano il contrasto fra un uomo stanco e il suo demone guizzante, cioè Mario, in una lotta tra ferocia e tenerezza, che sfocia in una silente resa dei conti (non priva di momenti concitati e quasi allegri, come la scena in cui il protagonista viene chiuso sul balcone da Mario).
I fantasmi fanno il nido nel futuro
Mallarico ha affidato tutto alla propria arte, per riscattarsi da una famiglia d’origine distrutta dalla dipendenza dal gioco d’azzardo del padre e per ricavare, grazie al talento, una dignità autonoma: “Ma ce l’avevo fatta, ero riuscito a turare le crepe a una a una, in affanno permanente. Io ero diventato carne, il resto fantasmi”. Però il suo talento va declinando, nell’epoca del doppio imperativo di esprimere se stessi e seguire la propria passione. La volontà di distinguersi, dice il protagonista riguardo la sua generazione (quella dei nati negli anni ’40), è soffocata da una ridda di volontà analoghe: “Sentirci unici c’era venuto facile […] Col tempo, però, l’eccezionalità era dilagata […] è diventata un vocio disperato di massa lungo le infinite rotte delle televisioni e di internet, un’eccellenza diffusa, mal pagata, spesso disoccupata”. In più, a un tratto, Mario strabilia il nonno con un disegno geniale e bellissimo, fatto senza consapevolezza (“Non capiva nemmeno ciò che aveva disegnato e colorato poco prima”). Dove potrebbe stare un commosso passaggio di consegne fra generazioni, Mallarico invece scorge la ratificazione dello “scherzetto” più atroce, fra i tanti che i due si fanno per giocare: quello che toglie di mezzo il vecchio a scapito delle potenzialità inespresse del bambino, capace di alternare scatti d’ingenuità infantile a momenti di consapevolezza furtiva e demoniaca (“Mario ha la faccia del Joker”, pensa). Il talento non conosce regole, visita e abbandona gli uomini a suo piacimento, dopo aver preteso una dedizione assoluta e grave, che Mallarico ha pagato con una vita coniugale infelice. Mario, col suo disegno, proietta l’immaginazione del nonno in un avvenire in cui lui non ci sarà più (“I fantasmi fanno il nido nel futuro”); sancisce non solo la sua mortalità, che Starnone suggerisce prossima, ma anche la vanità della stessa vocazione artistica che lo individua. In un certo senso, Scherzetto ci suggerisce un criterio controintuitivo per riconoscere i fantasmi: essi non sono solo ciò sul cui statuto di realtà siamo incerti; sono ciò che, esistendo con inspiegabile semplicità, ci getta nell’incertezza circa la nostra reale esistenza.
lorenzo.marchese@sns.it
L. Marchese è critico letterario