Meccanica quantistica
recensione di Filippo Polenchi
dal numero di marzo 2018
Davide Orecchio
MIO PADRE LA RIVOLUZIONE
pp. 313, € 18
minimum fax, Roma 2017
I destini s’incrociano non più in un castello, ma nella buriana di una rivoluzione. Si tessono fili e si perdono, perché “le righe scritte assomigliano a strade sterrate, sentieri non illuminati tra i campi. Quando scende la notte si prenda una torcia e la si accenda. Si guardi la terra con le sue espressioni, si ricavi un significato da quelle forme”.
Mio padre la rivoluzione (minimum fax) di Davide Orecchio, che arriva a distanza di tre anni da Stati di grazia (il Saggiatore, 2014) e di cinque dall’indimenticabile esordio di Città distrutte (Gaffi, 2012), fa i conti con la rivoluzione d’ottobre, “quando giganti e titani guidati da Lenin diedero l’assalto al cielo di Crono”. È un epicentro rosso, nel quale l’autore sprofonda: una “capsula” di ricombinazioni storiche, biografiche, di genere. Del resto è quello che succede quando il compito è “intrufolarsi nel collasso, nel sisma”. Davide Orecchio non scrive un “romanzo di racconti” storici, ma compie un lavoro ben più sottile. I personaggi che compongono il mosaico dei racconti sono noti: Trockij, Abraham Plotkin (un ebreo americano che testimonia dalla Berlino del 1933 l’avvento del nazismo), il poeta Gianni Rodari sulle tracce di Lenin, la geniale bestia da laboratorio di Hitler fuso con Stalin, il padre Alfredo Orecchio, il partigiano Kim, protagonista del capitolo “ideologico” dei Sentieri di nidi di ragno di Calvino, Rosa Luxemburg, Bob Dylan, lo “Zimmer Man”, il Breve corso di storia, vademecum del bolscevismo staliniano scomparso da tempo, Sergio Pitol, l’anarchico Francesco Ghezzi e la sua drammatica storia, di chi cerca riparo nell’Urss ma lì muore internato “nelle prigioni della Gpu”.
Pacchetti discreti di energia narrativa
Narrazioni “controfattuali”, come la splendida “possibilità” borgesiana del racconto iniziale su un Trockij sopravvissuto alla picconata di Mercader, che vive nella città di Coyoacán, “poco sotto a Città del Messico”; è il 1956, “assomiglia a suo padre che fu il diciassette” e Trockij assiste all’invasione dell’Ungheria, agli atti del XX Congresso del Pcus, ai documenti segreti di Chruščëv su Stalin. La giustizia poetica che risarcisce l’esperienza di Trockij e di quel pensiero che “distingue comunismo dallo stalinismo” appartiene più alla fantascienza che al racconto storico, sebbene personaggi e documentazione dell’autore siano rigorosissimi.
L’ucronia di Trockij come quella di Bob Dylan (desideroso di un magistero artistico cerca prima l’approvazione di Woody Guthrie e poi s’imbatte nella “vita di un uomo in tre volumi”, quindi scrive il mai scritto The prophet e rimane the Zimmer Man) rispondono a un preciso impulso: quello di chi vive la storia come un “quanto (…) che non avanza, non indietreggia, non irradia più storie”.
La storia, e ancor più il racconto delle storie, al grado zero dell’irraggiamento non cessa di propagarsi: quella che cambia è la materia che attraversa. Adesso questa materia è il vuoto (similmente a quello che accade in un altro bel romanzo italiano del 2017, History di Giuseppe Genna, pp. 528, €24, Mondadori): le storie attraversano il vuoto; le subparticelle atomiche d’ogni racconto interferiscono tra loro, dando vita a possibilità, a deviazioni, a ricombinazioni, secondo una logica probabilistica, proprio come accade per la meccanica quantistica. Pacchetti discreti di energia narrativa che si comportano anche come onde di probabilità.
La permutazione
Su tutto il territorio frammentato di Mio padre la rivoluzione domina la permutazione, oltre alla rivoluzione d’ottobre, fuori e dentro la sua fenomenologia storico-politica, oltre le ipotesi biografiche di personaggi storicamente esistiti. Anzitutto fin dal titolo, dove il grande “altro” della tradizione psicanalitica, il padre, è un femminile: la rivoluzione. Più avanti si legge, infatti: “l’anno diciassette (…) quando i padri furono pure le madri, e le madri si sdoppiarono in padri”. E ancora, sull’anno diciassette, “era l’androceo ed era il gineceo quando per gemmazione ebbe il tempo di dargli la vita”. Quando si entra, dunque, in questa zona di scomposizioni, ecco che le possibilità deflagrano insieme alle ibridazioni. Creature mostruose, come “Iosif Adolf Vissariovic”, degno discendente di una folle visione del dottor Moreau (H. G. Wells), fusione di Hitler e Stalin (a tal proposito, scrive l’autore che si tratta di “solo un esperimento letterario sulle analogie, sulle cose comuni terribili”), che abita nello “sprawl tra Mosca e Berlino” (altro territorio deterritorializzato, allestito da un’urbanistica della terribilità), a capo di una legione di “orchi e mezz’orchi, halfling e tiefling, gnomi, non morti, duergar e gibberling, maghi, barbari dalle divise marroni, artefici, guerrieri dalle divise nere, chierici”.
Davide Orecchio si conferma uno dei più arditi scrittori italiani contemporanei e noi ringraziamo il “cielo di Crono” per la fantasmagoria colta, seriamente ludica, commovente e lacerante che arriva in questo spietato 2017, a cento anni da quell’ottobre prodigioso.
filippo.polenchi@gmail.com
F Polenchi è consulente editoriale