Diario di bordo per lo sterminato labirinto in cui ci siamo persi
di Roberto Merlo
Mircea Cărtărescu
Solenoide
ed. orig. 2015, trad. dal rumeno di Bruno Mazzoni,
pp. 944, € 29,
il Saggiatore, Milano 2021
Chi non si è chiesto, almeno una volta nella vita, chi saremmo oggi se quella certa volta avessimo fatto un’altra scelta, se a quel bivio ci fossimo incamminati – o fossimo stati spinti – su un’altra strada invece di quella che ci ha portato qui dove siamo adesso? Chi non si è interrogato sulle infinite virtualità irrealizzate, sui cammini non percorsi, sui mari non navigati… La premessa dell’ultimo romanzo di Mircea Cărtărescu tradotto in italiano, Solenoide, è proprio questa, semplice eppure e gravida di conseguenze, come il battito delle ali della farfalla che provoca un uragano a centinaia di migliaia di chilometri di distanza. Che cosa ne sarebbe stato del giovane introverso, tormentato dai sogni e letteralmente nutrito di letteratura, dalla coscienza febbrile, inquieta, sottilmente paranoica – che pur condividendo con questi ossessioni, sogni e dettagli biografici “è e non è” il Mircea Cărtărescu della “nostra” realtà – se nella Romania cupa e triste degli anni ottanta, invece di affermarsi come scrittore, fosse rimasto un umile professore di romeno in una scuola di periferia di Bucarest? Il protagonista di Solenoide è l’altro Cărtărescu, il gemello al di là dello specchio, la virtualità di ciò che non è stato ma avrebbe potuto essere, e il bivio da cui si dirama frattalmente la sua storia alternativa è la prima, decisiva lettura pubblica del poema in cui l’aspirante scrittore investe ogni ambizione e ogni speranza, La caduta. Nella “nostra” realtà, un trionfo clamoroso, pubblicato nel volume di debutto del 1980, Fari, vetrine, fotografie, distinto dal premio dell’Unione degli Scrittori di Romania e inizio di un successo destinato crescere negli anni; in Solenoide, un fiasco totale, che relega il suo autore nell’oscurità di una vita, almeno in superficie, completamente anonima. Questa radicale differenza di direzione nel cammino dei sentieri che si biforcano determina il protagonista innominato di Solenoide a rinunciare alla scrittura pubblica di “libri”, “finte porte in trompe-l’œil pitturate sulle spesse pareti del museo della letteratura”, incantevoli ma in ultima istanza inutili in quanto non conducono da nessuna parte, per dedicarsi invece alla scrittura intima come strumento di comprensione della realtà e di decrittazione dei “segni” enigmatici che lo circondano e che “urlano per essere decifrati”.
Solenoide è il giornale di bordo, scritto “per cercare di capire cosa mi succede, in quale labirinto mi trovo, a quale test sono sottoposto e come devo rispondere per uscirne incolume”, di un viaggio senza ritorno alla ricerca dell’unica cosa veramente importante, dell’unica “porta” vera: quella che ci permetta di “evadere” dalla prigione malinconica e terrificante che è la condizione umana. Una porta – in una parola – verso la salvezza. Numerosi e forti sono i legami con le opere precedenti dell’autore, da Nostalgia, 1993, fino (soprattutto nella prima parte) alla trilogia Abbacinante, 1996-2007, di cui riconosciamo felicemente temi e stilemi, immagini e ossessioni. Ma nella spasmodica ricerca della “salvezza” dalla nuda angoscia dell’esistere, dall’aspirazione totalizzante alla fuga in una dimensione superiore, quello di Solenoide è anche un Cărtărescu decisamente “nuovo”, tutto proiettato nella “verticalità”. Al centro di questa narrazione costellata di catabasi nelle viscere del mondo e della coscienza e di scorci di anabasi in una dimensione superiore si trova essenzialmente, in una versione che pone la “mente” piuttosto che l’“anima” al centro della questione, il problema del male, sviscerato in pagine di struggente malinconia e di spietata sincerità, come in quelle dedicate al credo dei “manifestanti” che di notte picchettano cimiteri, obitori e ospedali di Bucarest scandendo slogan contro la sofferenza e la morte. Nessuno desidera morire e nessuno sceglie di non esistere, se non come unica alternativa a un esistere di intollerabile sofferenza, eppure tutti moriamo e tutti cessiamo di esistere. Lo sgomento e la malinconia costitutivi della condizione umana che illuminano come il “sole nero” di Nerval le pagine di Solenoide nascono dalla “coscienza” di questa “imminenza che sovrasta” (Heidegger), il “sapere” di essere vivi “sapendo” di stare nello stesso tempo inesorabilmente morendo, tradotta nel romanzo di Cărtărescu in visioni di straordinaria potenza, come quella che inizia con le parole “Vivo tra due lastre di vetro, infinitamente spesse e dalle dimensioni senza limite”.
Solenoide è un libro “colossale”. E non per la mole, perché le quasi mille pagine della traduzione italiana scorrono in un baleno, incantati dalla prosa ammaliante di Cărtărescu, sontuosa e straniante, affilata e precisa eppure opulenta e allucinata, resa in italiano con infinita sensibilità da Bruno Mazzoni, e catturati dal progressivo disvelarsi, quasi da detective, delle connessioni invisibili, dei sensi nascosti, dell’enigma verso cui puntano i “segni” raccolti dal protagonista. Ma per i temi enormi che affronta: la solitudine, il dolore, la perdita, la malattia, la vecchiaia, lo spaesamento, la “paura endogena”, tutti i demoni che tormentano l’essere umano e la loro regina la morte, allegorizzate nella Bucarest del romanzo dalle tredici statue che incoronano la cupola dell’Obitorio di Bucarest: la Tristezza, la Disperazione, il Terrore, la Nostalgia, l’Amarezza, la Collera, la Rivolta, la Melancolia, il Disgusto, l’Orrore, la Desolazione e la Rassegnazione, su cui troneggia come una dea di ossidiana la Dannazione. Contro di essi protesta la setta dei manifestanti, amareggiati e furibondi (nelle parole di una stupenda poesia di Dylan Thomas citata nel romanzo) per “il morire della luce” ma decisi a “non andarsene docili in quella buona notte”, e da essi cerca una via di fuga, attraverso il labirinto dei “segni”, il protagonista.
La vita dell’anonimo professore si svolge in una Bucarest magica e infernale, a un tempo iperreale e dechirichianamente metafisica (“Il mio mondo è Bucarest, la città più triste sulla superficie della terra, ma allo stesso tempo l’unica autentica”), tra l’enigmatica casa a forma di bastimento, nelle cui fondamenta è interrato un misterioso solenoide, bobina magnetica e mistica che gli consente di dormire (e fare sesso) in levitazione, e la decrepita Scuola 86, con il suo corollario di personaggi assurdi, malinconici, fantastici, come il grottesco direttore Borcescu, l’insegnante di fisica Irina, love interest del protagonista, che legge Krishnamurti e Madame Blavatsky e non crede affatto nella realtà, o la statuaria docente di matematica Florabela, ultimo rampollo di una stirpe femminile nata da un sogno e in cui ogni figlia è due volte più reale e più bella della madre. Nel resoconto del movimento quotidiano intorno a questi due poli, così come di eventi cruciali del passato – ad esempio la morte del fratello gemello e l’esperienza del preventorio a causa della tubercolosi infantile, che includono le pagine stupendamente luminose dedicate alla foresta di Voila – e di inquietanti episodi onirici si dispiega un allucinato itinerario per inferos (risignificazione del modello dantesco, più volte esplicitamente richiamato) disseminato di eventi, oggetti, sogni, immagini, storie, personaggi, domande: i “segni” intorno a cui si tessono i numerosi fili narrativi del romanzo, unificati dall’urgenza soteriologica della decifrazione che costituisce lo scopo stesso della scrittura. In uno stile unico, che non si può definire se non “cărtăreschiano”, in cui richiami letterari esibiti con voluttà o raffinatamente camuffati si coniugano mirabilmente a suggestioni della cultura pop, dai videogiochi ai blockbuster Sf, e in cui il mistico e lo scienziato si contendono il primato sulla rivelazione, Cărtărescu e il suo alter ego cartografano il labirinto di dolore, di paura e di frustrazione della condizione umana, alla ricerca dei segni “che provano che l’evasione è possibile”. Come si legano tra loro il romanzo Il figlio del cardinale di Ethel Lilian Voynich, la proiezione in quattro dimensioni del cubo tridimensionale (il tesseratto) teorizzato dal cognato di questa, il matematico e scrittore di fantascienza Charles Howard Hinton, e l’indecifrabile manoscritto acquisito dal marito della scrittrice, l’ex rivoluzionario polacco Michał Habdank-Wojnicz divenuto il librario antiquario Wilfrid Michael Voynich? E cosa lega questi agli esperimenti di impiccagione controllata praticati dallo scienziato forense e criminologo Nicolae Minovici, allo studio del sonno e dei sogni dello psicologo Nicolae Vaschide (quest’ultimo protagonista di una antologica storia nella storia) o alle bizzarre ricerche dello studioso di acari ed ex-bibliotecario Palamar?
E come si intreccia tutto ciò con i visitatori notturni che agitano il sonno del protagonista, con la sua vita onirica e le sue allucinate visioni, con la misteriosa ascesa al cielo del custode alcolizzato Ispas, con i cinque meccanismi imperscrutabili nella fabbrica abbandonata nei pressi della scuola, con la “macchia” scoperta da una alunna in un campo, in cui si materializzano enigmatici oggetti da un’altra dimensione, con la setta di manifestanti, con la storia della moglie di un mugico che scompare nel nulla nel cuore di una notte d’inverno, con il solenoide sui cui poggia la casa-nave del personaggio narrante? E qual è la connessione di quest’ultimo con gli altri enigmatici solenoidi impiantanti nel sottosuolo di Bucarest, e qual è la loro funzione ultima? E soprattutto – poiché “nessun libro ha senso se non è un Evangelo”, ovvero nessuna storia ha senso se non è una storia di salvezza – dov’è la porta per evadere dalla prigione?
La risposta a questa domanda, che richiede di misurarsi con l’incommensurabile (come nella mesta parabola del messia degli acari della scabbia, altro pezzo da antologia), è che “la porta non c’è”. O meglio, forse, che “la domanda è sbagliata”. E che se la salvezza non è possibile, esiste per contro – e questo è il twist del finale stupefacente del romanzo, poetico, apocalittico, catartico, palingenetico – la possibilità della “redenzione”, di trovare scampo non “all’esterno” ma, in un certo senso, “all’interno”, non sottraendosi alla condanna, ultimamente ineludibile, bensì – rivisitando l’impianto fondamentalmente kafkiano della questione – conferendole un senso. Solenoide è un libro che fa male, perché parla di un terrore atavico di cui usiamo tacere (“Vivo nella paura, respiro paura, deglutisco paura, verrò seppellito nella paura. Trasmetto la mia paura di generazione in generazione, così come l’ho ricevuta anch’io da genitori e nonni”), perché formula domande che preferiamo non porci (“Perché sono qui? Perché la mia mente tesse il mondo come un rocchetto? Cosa significa tutto questo? (…) Chi mi ha rinchiuso in questa testura folle di quark ed elettroni e fotoni?”), perché grida il pensiero che desideriamo dimenticare (“Perché posso pensare, se non posso pensare ad altro che al fatto che morirò?”).
E in questo, è anche un libro che “fa bene”. Perché la vita che ci ritroviamo a fare in una società prigioniera di un’idea cancrenosa di sviluppo e di crescita infinita, una società della performance, della produttività e della redditività al di là e al di sopra di ogni considerazione etica, umana e ambientale, è spesso quella del bue col paraocchi, che vede e vive solo la porzione di terreno da arare davanti a sé. La scomoda urgenza di Solenoide è uno strattone salutare, che ti strappa via il paraocchi e ti mette di fronte al campo intero, la nostra vita, e alla sua pochezza rispetto all’immensità dell’universo sensibile e ancor più dei multipli reami che si celano al di là della nostra capacità di percepire e di comprendere. E se da un lato questo apre le porte alla malinconia e allo sgomento sublime che sempre coglie l’essere umano presente a se stesso davanti all’incommensurabile – come accade al protagonista del romanzo di fronte alla distesa infinita delle “agghiaccianti stelle” – dall’altro è anche una salutare e sempre più necessaria spinta a rivedere le priorità, a ripensare a ciò che è davvero importante essere e fare nel tempo che ci è dato trascorrere, insieme ad altri malinconici condannati, in questa gloriosa prigione che chiamiamo “vita”.
roberto.merlo@unito.it
R. Merlo insegna letteratura rumena all’Università di Torino