Un doppio ottaedro distorto
di Alice Gardoncini
Martina Mengoni
I sommersi e i salvati di Primo Levi
Storia di un libro (Francoforte 1959-Torino 1986)
pp. 319, € 23,
Quodlibet, Macerata 2021
“Caro marito mio / ascoltami bene / in tutta la Germania / non ci tocca più pastina ma soltanto nazisti / è del tutto indifferente dove andiamo a comprare la pasta / troviamo sempre soltanto nazisti / è del tutto indifferente quale confezione di pasta / apriamo / ne escono sempre soltanto / nazisti / e se facciamo bollire il tutto / trabocca paurosamente / non posso farci niente”. Questa surreale pentola che trabocca di nazisti viene evocata in un brevissimo atto unico di Thomas Bernhard messo in scena il 7 febbraio del 1979: Il pranzo tedesco. È l’immagine di un decennio – gli anni settanta – caratterizzato da un’intensa riflessione sui fascismi, dalla preoccupazione per le recrudescenze di violenza politica nel panorama europeo, persino dalla moda storiografica denominata Hitlerwelle. È dunque tempo di bilanci e di confronti, perché, come dichiarava Primo Levi in un’intervista, si scorgono “troppi segni allarmanti, analoghi a quelli di trent’anni fa (…). Il seme di Auschwitz è ancora radicato nella nostra società”. Il 1979 è una data cruciale anche per la storia narrata nel bel libro di Martina Mengoni uscito per i tipi di Quodlibet nel gennaio di quest’anno. È infatti proprio tra la fine del 1979 e il marzo dell’anno dopo che Levi scrisse La zona grigia, da un punto di vista cronologico il primo degli saggi che compongono I sommersi e i salvati, nonché il più noto. Ma parlando di date, bisogna fare innanzitutto attenzione a quelle che Mengoni pone in calce al sottotitolo del suo saggio. L’indicazione “Torino 1986” si spiega da sé, perché ricalca l’anno e il luogo di edizione dell’ultimo libro di Levi; al contrario, “Francoforte 1959” rappresenta la vera novità e la sfida critica dell’opera di Mengoni. Se infatti una certa vulgata leggeva I sommersi e i salvati retrospettivamente, ovvero dal punto di vista della morte dello scrittore nell’aprile del 1987, e considerava quindi quest’opera come una sorta di testamento spirituale, il movimento critico di Mengoni si può dire vada nella direzione opposta. E lo fa mostrando che quest’opera ha avuto una genesi e una gestazione quasi trentennale, ed è dunque il risultato di una rielaborazione critica, storica e persino narratologica delle istanze attive in Levi fin dagli anni cinquanta.
L’originalità dell’operazione critica di Mengoni, che è anche il motivo per cui questo lavoro trova la sua collocazione ideale nella collana “Letteratura tradotta in Italia” di Quodlibet, sta nell’aver individuato il motore di questa feconda rielaborazione in una traduzione. E non in una qualsiasi: nel 1959 Levi viene informato che l’editore Fischer ha comprato i diritti di Se questo è un uomo (ripubblicato da Einaudi l’anno prima) per tradurlo in tedesco. Prima di fungere da stimolo per tutte le successive riflessioni, la notizia retroagisce sull’opera scritta tra il 1945 e il 1947, suscitando in Levi un’improvvisa chiarezza sugli effettivi interlocutori di Se questo è un uomo. Come si legge nei Sommersi: “i suoi destinatari veri, quelli contro cui il libro si puntava come un’arma, erano loro, i tedeschi”. Inevitabilmente la traduzione in tedesco di quell’opera non può non giocare un ruolo tutto particolare e carico di significati: “volevo che in quel libro, ed in specie proprio nella sua veste tedesca, niente andasse perduto di quelle asprezze, di quelle violenze fatte al linguaggio, che del resto mi ero sforzato del mio meglio di riprodurre nell’originale italiano.
In certo modo, non si trattava di una traduzione ma piuttosto di un restauro: la sua era, o io volevo che fosse, una restitutio in pristinum, una retroversione alla lingua in cui le cose erano avvenute ed a cui esse competevano. Doveva essere, più che un libro, un nastro di magnetofono”. Tale pretesa, che Levi definisce anche “scrupolo di superrealismo” è il punto da cui prende l’abbrivio l’epistolario con il traduttore Heinz Riedt. Che è solo il primo di una lunga serie: la rete epistolare presto coinvolge semplici lettori tedeschi, intellettuali, testimoni di Auschwitz, infine la giornalista tedesca Hety Schmitt-Maas che oltre a dialogare con Levi per quasi vent’anni inviandogli opere e suggerimenti di lettura, si fa promotrice di alcuni incontri cruciali, tra gli altri quelli con Jean Améry e con Ferdinand Meyer, l’ingegnere tedesco conosciuto a Auschwitz che diventerà il dottor Müller al centro del racconto Vanadio. Il libro di Mengoni ricostruisce con estrema chiarezza e rigore filologico non solo questa e tutte le altre conversazioni epistolari, ma anche alcuni progetti editoriali, il suo “scaffale tedesco”, le fonti e la precisa cronologia dello sforzo leviano di “capire i tedeschi”; nella convinzione che seguire la genesi dei Sommersi e salvati significhi, in fondo, rileggere “una porzione consistente della biografia intellettuale di Primo Levi”. Di tutto ciò fa parte lo scavo critico di Mengoni sulle letture tedesche che Levi porta avanti mentre scrive i Sommersi. Fonti letterarie e non, che Mengoni è in grado di far dialogare armoniosamente con il proprio discorso critico, evidenziando per esempio la possibile influenza del personaggio-Giuseppe di Thomas Mann sul “modo di far dire ‘io’ ai personaggi dei libri” di Levi, oppure il ruolo fondamentale che ha avuto l’opera di Victor Klemperer sulla lingua del Terzo Reich per la tematizzazione della questione linguistica in Comunicare, il quarto dei saggi che compongono i Sommersi.
Nel capitolo conclusivo, significativamente intitolato L’ottaedro dei “Sommersi”, l’autrice propone infine una vera e propria lettura “geometrica” dell’opera, attuando uno smontaggio e rimontaggio del libro leviano, nel segnalare ogni volta un diverso possibile ingresso e punto di vista sull’opera. Lo fa mettendo in rilievo innanzi tutto il carattere aporetico, paradossale e spurio del proprio oggetto, che non significa però pessimista o anti-illuminista. Dunque da un lato “I sommersi è un libro di natura testimoniale perché rimette radicalmente in discussione l’atto stesso della testimonianza”, e tuttavia, dall’altro, si scorge in esso l’inesausta fiducia nella ragione: “In nessun altro libro più che in questo, Levi mette in atto tutti gli strumenti razionali che possiede con un grado di raffinatezza e profondità mai raggiunti fino a questo momento”.
L’ottaedro del titolo (otto lati, come otto sono i saggi che compongono i Sommersi) viene a tutta prima descritto come un solido platonico regolare, ma poco più avanti l’autrice rettifica e complica la sua stessa definizione, proponendo infine l’immagine del “doppio ottaedro distorto che si forma nei complessi chimici di certi metalli”. Come lo stesso I sommersi e salvati a cui quest’indagine critica è dedicata, il saggio di Mengoni è a sua volta un libro che rifugge le risposte facili, un libro “contro le semplificazioni, le banalizzazioni, gli stereotipi”.
gardoncini.alice@gmail.com
A. Gardoncini è traduttrice dal tedesco e docente all’Università degli Studi di Udine