Matteo Meschiari – L’ora del mondo

recensione di Mauro Maraschi

Matteo Meschiari
L’ORA DEL MONDO
pp. 174, € 15
Hacca, 2019

Matteo Meschiari è antropologo del paesaggio, geografo, saggista e romanziere. Negli ultimi anni è approdato a una forma narrativa ibrida che si potrebbe definire “antropofiction” e che nel 2016 ha dato il primo risultato notevole, Artico Nero, seguito l’anno successivo da Neghentopia (entrambi con Exorma). Meschiari ha quindi deciso di sperimentare una delle possibili diramazioni di quel percorso, e il risultato è stato L’ora del mondo, romanzo allegorico, colto e stratificato. Ne è protagonista Libera, una bambina di dieci anni dai capelli rossi e monca di una mano: abbandonata nei boschi, allevata dai lupi, adottata da una ristoratrice e infine scappata nella natura, Libera è forte e coraggiosa, ed è destinata a salvare in mondo. A comunicarglielo è l’Uomo-Somaro (una sorta di mediatore tra uomini e bestie), che l’ha attesa nelle Terre Soprane per novecentocinquant’anni e le affida il compito di rintracciare il Mezzo Patriarca perduto, colui che «se infine ritrovato dovrebbe riaggiustare le cose quassù e forse anche a valle dove ci sono gli uomini». Libera intraprende la sua ricerca sfidando divinità ferine e oscuri presagi, e va avanti così per decenni, fino al riscatto delle anime imprigionate nell’oblio.

A fare da scenario, un Appennino tosco-emiliano fatato e selvatico e, poco distante, una Modena immaginaria. Nella narrativa di Meschiari il paesaggio non è mai un fondale, ma un’entità senziente e partecipe, risultato e testimonianza delle modifiche naturali e antropiche, delle interazioni sociali e, in senso più ampio, dell’incessante evoluzione della superficie terrestre. Ecco perché l’autore non fa distinzione tra elementi animati e inanimati, e perché, pur proponendo una protagonista più o meno umana, più o meno reale, la fa interagire con linci, arbusti e creature soprannaturali: ne L’ora del mondo tutto è vivo e tutto può morire, anche se nei limiti di una visione biochimica e mistica per la quale nulla si crea e nulla si distrugge e persino le anime, come per Democrito, sono fatte di atomi.

Quest’immaginario, a primo acchito visionario, ha in realtà una logica interna ben definita, dichiarata da Libera nel settimo capitolo grazie a un espediente metaletterario, l’incontro con l’autore: «I Popoli sono i Semidei. Sono arrivati con gli uomini. Prima degli uomini c’erano gli Dei. Hanno nostalgia di quando l’uomo non c’era. Per molto tempo hanno ricevuto le nostre attenzioni. Qualcuno li ha dipinti nelle grotte. Poi è arrivato il grano e con il grano gli Dei sono stati dimenticati mentre i Semidei hanno acquistato potere». Ritrovare il Mezzo Patriarca perduto significa quindi riconciliare il mondo degli uomini (i Popoli) con quello della natura (che nel panteismo naturalistico è sinonimo di Dio): «Perché se non ritorni tutto finirà. I Popoli si estingueranno. Gli animali smetteranno di parlare. Gli Dei si ritireranno dal mondo e le anime non torneranno mai più al grande Albero Nero che le raccoglie e le rigenera». In questo caso l’Albero Nero somiglia molto all’albero della vita, elemento ricorrente in numerose cosmogonie quale origine perpetua della vita che affonda le sue radici nell’oltretomba. Bisogna inoltre considerare l’ipotesi che Meschiari abbia scelto molti altri elementi per la loro valenza simbolica, come nel caso del ginepro (che nella cultura popolare italiana rappresenta la resilienza e la ricerca della libertà) o della lince (che nelle culture sciamaniche è l’animale totem detentore della conoscenza).

Per raccontare un universo così complesso, Meschiari ha optato per una scrittura paratattica, erudita ma accogliente, predisposta alla lettura orale o all’adattamento drammaturgico. E, per facilitare il compito al lettore, ha disseminato il romanzo di indizi che intrecciano il piano immaginifico alla realtà storica, come nel già citato incontro tra l’autore-personaggio e Libera o nella scena in cui, sul computer dell’autore-personaggio, possiamo scorgere l’incipit del romanzo stesso. Al contempo, per buona parte, si può guardare a quest’opera anche solo come a una favola; nemmeno il citazionismo è fine a se stesso, ma si limita a rifinire il quadro dal punto di vista estetico (La terra desolata o i Canti orfici) o contenutistico (la Divina Commedia, dalla quale Meschiari ha tratto i titoli dei 34 capitoli, quanti sono i canti dell’Inferno).

Muovendosi tra favola morale, parabola allegorica e fantasy, L’ora del mondo invita il lettore a rinunciare alle dicotomie, all’antropocentrismo e alla convinzione ineluttabile che la direzione presa dal mondo – e da noi che lo abitiamo – sia la sola percorribile. E per facilitare quest’esercizio di rinuncia, Meschiari sceglie una protagonista priva di una mano e quindi incapace di applaudire, di incensare chicchessia, di sottostare a qualsiasi regola – una «Signorina Anarchia» essenza della disobbedienza civile. L’ora del mondo vuole indagare lo scollamento tra il presente e un ipotetico passato arcaico nel quale l’uomo era parte integrante del territorio: in tal senso Libera è, tra le tante cose, un varco dimensionale sull’armonia perduta, nonché l’unica persona in grado di persuaderci circa l’imminenza di una possibile catastrofe. Come i jurodivye o “stolti di Dio” della tradizione cristiana ortodossa, Libera è a suo modo un’asceta, e forse una veggente: «La Guerra delle Cose è iniziata. Non ve ne siete accorti. È per questo che il Mezzo Patriarca perduto va ritrovato. Per dare un senso alla guerra. Per dare a tutti una speranza. L’avete capito? Avete capito che cosa sta succedendo?»

Certo, a tratti si può rimproverare a Meschiari un eccesso di fantasia: se immaginare è una forma di resistenza, è anche vero che il senso della misura è fondamentale per veicolare un messaggio; da questo punto di vista, nonostante la brevità, L’ora del mondo si presta ad analisi complesse e suggestive ma anche interminabili. Al contempo, basta approcciarsi all’opera con qualche strumento in più (o rileggerla) per cogliere la profondità e l’interconnessione dei suoi numerosi rimandi interni. Attraverso la costruzione di un universo narrativo animista e universale, Meschiari ha trovato un modo tutto suo (e piuttosto seducente) per raccontare l’Antropocene e l’urgenza di ripristinare un’antica forma di equilibrio tra uomo e natura, prima che sia troppo tardi per qualsiasi tentativo.