È da poco scomparso Mario Lavagetto, uno degli ultimi grandi maestri della critica letteraria, autore di pagine indimenticabili su Saba, su Proust e sull’opera di Sigmund Freud. Lo ricordiamo con un pezzo dal nostro archivio, una recensione di Mariolina Bertini al suo saggio Eutanasia della critica edito da Einaudi nel 2005.
Scritto ben prima che un manipolo di fiammanti Meridiani Mondadori a prezzo stracciato invadesse le edicole, contendendo il terreno ad altre reincarnazioni dell’eterno modello Pléiade, questo pamphlet di Mario Lavagetto prende le mosse dal fenomeno delle varie “biblioteche” di “capolavori” proposte con successo al pubblico italiano, da quotidiani e settimanali, nell’arco degli ultimi tre anni. Siamo veramente di fronte – come ha scritto «la Repubblica» – a «un risultato di grande interesse dal punto di vista culturale?» Lavagetto avanza in proposito alcune serie riserve che è difficile non condividere. Quanti di quei volumi, piovuti nelle case degli italiani un po’ casualmente, non scelti né particolarmente desiderati dal loro potenziale lettore, troveranno la strada per forzare la sua pigrizia, per farsi leggere veramente? E le coraggiose collezioni economiche, come i Grandi Libri Garzanti, che offrivano nuove, accuratissime edizioni di classici maggiori e minori, come reggeranno alla concorrenza dei “cloni” da edicola, creati riciclando, a prezzi da superliquidazione, fondi buoni e meno buoni di cataloghi illustri ?
Considerando che a questa alluvione di testi corrisponde una sorta di simultanea eclissi della critica, sempre più spesso confinata in collane specialistiche mantenute in vita con finanziamenti ministeriali e destinate agli studenti universitari, Lavagetto si chiede se non ci troviamo di fronte alla realizzazione caricaturale di un malaugurato auspicio di George Steiner. Esasperato dal proliferare di una saggistica letteraria sovrabbondante, presuntuosa e autoreferenziale, Steiner auspicava in Vere presenze (1990) l’avvento di una “città del primario”, da cui fossero banditi l’interpretazione e il commento, per lasciar spazio al religioso ascolto delle opere nella loro nuda, verginale essenzialità. La descrizione offerta da Steiner di una letteratura secondaria succube di mode transitorie e di tecnicismi mal digeriti, degradata nel linguaggio e ispirata più dalle esigenze di carriera accademica degli autori che da seri orientamenti di ricerca, non è smentita da Lavagetto, che ha pagine particolarmente felici sulla “chirurgia standardizzata” degli epigoni tardivi dello strutturalismo e sui loro vani quanto frenetici tentativi di acchiappare al volo l’autobus di ogni nuova disciplina e metodologia. Non è dunque tanto la pars destruens dell’utopia di Steiner a essere qui confutata, quanto il suo auspicato esito positivo: il mito di un possibile accesso alle opere letterarie senza alcuna mediazione esegetica. È un mito che ricorda un poco la concezione che della lettura aveva Ruskin, concezione contro la quale il giovane Proust partì lancia in resta in un saggio famoso. Per Ruskin, la lettura altro non era che una forma più elevata di conversazione: frequentare i grandi autori significava disporsi ad accoglierne il verbo armati di buona volontà, di buona fede e d’inesauribile ammirazione. Proust preferiva invece, anche nei confronti dei classici, un atteggiamento meno rispettoso. Dai testi interrogati e sollecitati voleva far emergere il disegno nascosto e ricorrente di una visione sottaciuta del reale, impressa nella forma letteraria dal pensiero dell’autore, spesso al di là delle sue intenzioni deliberate.
Proust e James sono, in certo qual modo, i numi tutelari di questo volumetto, che, dietro la maschera seducente del pamphlet, è soprattutto un’accorata, elusiva, elegantissima autobiografia intellettuale. Le loro voci sono tra i punti di riferimento costanti di un percorso che, lasciatisi alle spalle positivismo e crocianesimo, attraversa psicoanalisi, marxismo e strutturalismo, accogliendone impulsi, istanze e fermenti, ma rifiutando dogmatismi, irrigidimenti e semplificazioni. Il punto d’arrivo non è certo una formula o una ricetta, ma una lezione di metodo complessa e sfumata. Come il protagonista del racconto di James La cifra nel tappeto il critico deve, per Lavagetto, cercare nei testi letterari, con una puntigliosità che rasenta l’ossessione, «l’essenziale, ciò che li rende degni di essere scritti». Si tratta di individuare «qualcosa che c’è, che è nel testo e che ne determina – invisibile – il funzionamento». È una scelta metodologica che naturalmente non esclude, né invalida, altre prospettive che, dalla storiografia letteraria allo studio morettiano dell’evoluzione dei generi, le sono in qualche modo complementari. Una scelta i cui esiti non sono mai garantiti né i procedimenti automatici; perché sullo sfondo è sempre presente la lezione di Debenedetti, che impone al critico l’ascolto di un «rintocco» enigmatico e precario: «il rintocco che ci avverte di essere sulla strada buona, quello che si sprigiona dal fondo, dalla fabbrica, dalle oscure officine del destino, e ci garantisce che il verso che leggevamo, o il romanzo, o il capitolo di romanzo ha arricchito la nostra conoscenza del destino, cioè del senso e dei fini della vita».