recensione di Camilla Valletti
Marco Albino Ferrari
Mia sconosciuta
pp. 240, € 16.00
Ponte alle Grazie, Milano, 2020
Dopo una carriera di titoli dedicata alla montagna nelle sue forme più varie e vaste, Marco Ferrari spende la carta della autobiografia. Una vicenda speciale perché dominata dalla relazione con la propria madre, la donna da cui, come alpinista, giornalista e uomo, farà dipendere tutte le scelte fondanti di una vita. Il testo è un memoir che alterna momenti di cronaca dettagliata ad altri spinti sul crinale della finzione. Nato da sola madre, cresciuto dentro a una dualità a tratti asfittica, Ferrari rimette le mani nel suo passato per tentare di sciogliere il mistero che ha da sempre accompagnato la figura di sua madre.
Giovane volitiva, con tratti nevrotici, allevata secondo i crismi di una famiglia borghese, Rosamaria a certo punto esce dal seminato. In crisi con le sue ambizioni di pianista, trascinata lontano da un eccesso di passione per la montagna, deviata forse da un amore sbagliato e non pienamente corrisposto per Edi Consolo – noto illustratore di montagna, “inventore delle Alpi” con un passato avventuroso da partigiano passeur – , decide di fare un figlio senza destinargli un padre. Così Ferrari assume su di sé, sin da piccolissimo, le speranze infrante, le pulsioni masochistiche e un certo sadismo che la madre non gli lesina senza badare alle sue difese. Eppure, nel sogno di un passato ricucito, restano fissate nella memoria le lunghe estati trascorse a Courmayeur in una pensione dai lettini cigolanti e scomodi, prima tappa delle innumerevoli escursioni per mano a sua madre. Ed è in questi contesti che la donna rivela il suo volto più tenero, la sua propensione didattica, il suo irriducibile guardare al mondo fuori da qualsiasi retorica. Ed è in queste porzioni di tempo strappate alla loro condizione dolorosa che il giovane Ferrari impara a condividere il medesimo stile, a seguire il passo personalissimo della donna, ad attingere alle sue parole per leggere l’ambiente. Scritto con cura, il romanzo apre ampie parentesi su alcuni temi portanti, come quello della villeggiatura durante gli anni della guerra, sulla Resistenza di frontiera, su Milano del dopoguerra, sulle avanguardie artistiche che Rosamaria frequentò in uno dei suo slanci poco fertili. Ne esce un ritratto molto interessante, perché disattende la figura della madre convenzionale collocandola nel novero di quelle donne affascinanti ma sottilmente distruttive che hanno abitato tanta letteratura. Con un particolare livello d’attenzione per il linguaggio che deve farsi severo, quasi scabro, come insegna una certa fatica d’ascensione, velata di ironico understatement pari ai ricordi alpestri di Natalia Ginzburg nel suo Lessico.