di Paolo Bertinetti
Maggie O’Farrell
Nel nome del figlio
Hamnet
trad. it. di Stefania De Franco
pp. 352, € 19
Guanda, Milano, 2021
“Questo romanzo è frutto di fantasia”, si legge sulla pagina del copyright di Nel nome del figlio. Hamnet. “Eventi nomi e personaggi – a parte i personaggi storici – sono esclusiva invenzione dell’autrice”. Che è Maggie O’Farrell, una delle più affermate e premiate scrittrici britanniche di questi ultimi venti anni. Per la verità sono esclusiva invenzione dell’autrice anche i personaggi storici. Come William Shakespeare, sua moglie Anne, suo padre John, i suoi figli Susanna, Judith e Hamnet. Di esclusiva invenzione nel senso che, poiché della loro vita non sappiamo molto, li ha immaginati lei a partire da quel poco che si sa. Come ad esempio quell’ancor giovane Shakespeare che si muove per le strade della City molto attento a spendere soltanto il minimo indispensabile (come sappiamo, morirà ricco). Come Anne Hathaway, di otto anni più vecchia di lui, che Shakespeare sposò perché era incinta e che qui diventa Agnes, fanciulla misteriosa, che aveva un falco, che conosce le erbe medicinali, che vive un rapporto intenso con la natura e che si abbandona dolcemente al richiamo sessuale che il giovane precettore (cioè Shakespeare) esercita su di lei; e che deciderà di partorire da sola, nella foresta. L’edizione italiana aggiunge al titolo originale, che è Hamnet, la frase Nel nome del figlio. I padri sono figure su cui O’Farrell punta il suo obbiettivo. John, il padre di Shakespeare, è presentato come un uomo sgradevole, malvisto o ignorato dai suoi concittadini (per i debiti contratti), ma soprattutto prepotente, violento, a tratti crudele. Disprezza il figlio (il cui nome non compare mai nel romanzo), che quindi “emigra” a Londra, aiutato dalla moglie stessa, che lo incoraggia a sottrarsi a una situazione soffocante e a seguire la sua seppur incerta vocazione. In realtà non si sa nulla delle ragioni per cui Shakespeare lasciò Stratford nel 1585, poco dopo la nascita di due gemelli, Judith e Hamnet, e che cosa fece subito dopo. Sappiamo che nel 1592 il drammaturgo Robert Greene accusava l’attore e autore Shakespeare, un “traffichino venuto dal nulla”, di copiare i testi suoi e dei suoi colleghi. Sappiamo anche che intorno all’anno 1600, divenuto autore di grandissimo successo, scrisse Hamlet, cioè Amleto. Il nome Hamlet all’epoca veniva a volte scritto Hamnet, come il nome del figlio morto a 11 anni, quattro anni prima. Una “riparazione” per l’abbandono? Il frutto dell’elaborazione del lutto?
Il dolore di Shakespeare nel romanzo è affidato ai gesti, non alle parole (troppo rischioso inventare le parole che Shakespeare avrebbe potuto dire). E’ invece il dolore di madre di Agnes che trova nelle parole tutta la sua intensità. Ma anche nei gesti: struggente è la scena in cui pulisce e sistema il cadavere di Hamnet, che O’Farrell immagina, cosa non improbabile, che sia morto di peste. (In un brillante capitolo il romanzo segue il “viaggio” della peste, portato da persone, animali e oggetti da Alessandria d’Egitto fino alla casa di Agnes). Il dolore è il filo conduttore di tutto il romanzo. Un dolore che quasi assume il carattere di dato fondamentale dell’esistenza, che accompagna, in misura maggiore o minore, tutte le fasi della vita dei personaggi del libro. Di Agnes, soprattutto, che sopporta la lontananza dell’uomo che ama, che affronta l’angoscia per la probabile morte di Judith e lo strazio per quella di Hamnet. Che in una scena finale, del tutto improbabile ma assolutamente geniale, è commossa testimone del parziale riscatto del padre assente William Shakespeare. Il quale, come sappiamo, nel testamento lasciò in eredità alla moglie soltanto un letto; ma non quello bello, l’altro. Degli artisti, Shakespeare in primis, dobbiamo valutare soltanto le opere, non le azioni e le scelte della loro vita come faremmo se fossero dei comuni mortali come noi. Non lo sono.