Sono i giorni del quarto anniversario della morte di Luca Rastello. In rete si ricondividono pezzi, interventi, ricordi di amici pubblicati in questi anni. In un suo articolo su Dopodomani non ci sarà, uscito su Carmilla online nell’ottobre 2018, Leonardo Casalino cita una pagina dell’Indice del luglio 1986: «In un viaggio solitario, tra il 1985 e il 1986, in una birreria di Praga, avvenne l’incontro casuale con un Hrabal ormai anziano, il quale nell’attesa di un’intervista con un giornalista occidentale si era fermato al tavolo vicino al suo. Ritornato in Italia, pubblicò nel luglio del 1986 sull’Indice il racconto di quell’incontro e una recensione del romanzo Ho servito il re d’Inghilterra, non a caso intitolata Ho incontrato il re d’Inghilterra. Il suo articolo fu pubblicato accanto alla recensione di Cesare Cases a I sommersi e i salvati di Levi; a rileggerla oggi, quella pagina dell’Indice appare come una traccia preziosa per una storia della cultura torinese degli anni Ottanta, ancora tutta da scrivere».
Pensavamo fosse giusto, oltre che bello, riproporre il racconto di Luca, corredato da un ricordo di Monica Bardi su quella serata rocambolesca e sulla temperie culturale che Rastello stava attraversando in quegli anni.
La storia dell’incontro di Luca Rastello con Hrabal è anche la storia di una scelta o, se si può usare questo termine, del riconoscimento di una vocazione. Luca ha venticinque anni e sta studiando filosofia con indirizzo matematico, insieme ad Aldo Antonelli, che poi andrà a insegnare in un’università degli Stati Uniti. Si è però buttato a capofitto in un mucchio di libri di letteratura dell’Europa orientale, in parte pubblicati da Einaudi e un po’ proposti (con una scelta editoriale minoritaria e raffinatissima) da E/O. A Torino ha incontrato una signora scappata (attraverso un matrimonio con un italiano) dalla Cecoslovacchia, Ivana Brozova, e ha cominciato a prendere lezioni di lingua ceca. Ivana prepara complicati schemi grammaticali e Luca impara, sotto lo sguardo perplesso dei genitori, che gli chiedono “che cosa mai gli servirà questa lingua”. Ma Luca rilancia con la richiesta di andare a Praga per qualche mese. Deve assolutamente incontrare Hrabal, parlargli, trovare l’oggetto del suo innamoramento. Hrabal ha inventato in un suo libro il nome della taverna di Praga in cui va a bere birra ogni giorno e Luca la cerca invano, sulle orme di un colore “verde” che non ritrova in nessuna insegna. Una sera però vede un vecchio signore arruffato che tira fuori pescetti da un cartoccio unto e legge i poemi di Eliot. Lo sguardo corre alle panche, dipinte di verde, e il cuore balza in gola: lo strano bevitore seduto vicino a lui è sicuramente Hrabal e in più sta cercando una penna per prendere qualche appunto. Ma Luca è timidissimo, non osa chiedere, segue lo scrittore sul Ponte Carlo: quando lui se ne accorge, si allarma, affronta il ragazzo straniero. I due si parlano ma Hrabal non vuole essere intervistato. Quando Luca tornerà a Torino potrà solo raccontare sull’Indice, rivista nata da poco, questo incontro, e intanto tentare anche di spiegare chi è quello scrittore e di che cosa parlano i suoi libri. È la sua prima recensione complessa per l’Indice e anche l’occasione per comparire nella stessa pagina accanto a Goffredo Fofi. Sarà quest’ultimo a cercarlo a casa, un mattino, alle sette e mezza, con una telefonata che segnerà l’inizio di una fortissima amicizia: “Sono Goffredo Fofi e voglio parlare con Luca Rastello”. Ma Luca crede di riconoscere la voce dell’amico Aldo e risponde: “E io sono Cesare Cases e non rompo le palle alle sette del mattino”. Dall’altra parte del filo esplode una fortissima risata. Peccato non poterlo raccontare a Hrabal: l’aneddoto gli sarebbe piaciuto moltissimo.
Hrabal siede su una panca verde al tavolo di un’osteria della città vecchia; mangia panini unti, tirati fuori da un sacchetto portato da casa, e beve due litri di birra in venti minuti. “Ognuno deve alimentare come può la sua leggenda” dice una voce autorevole. E invece no: si siede al mio tavolo e mi spiega che a lui non fa bene bere così ogni sera, ma deve venire in quell’osteria ad aspettare un giornalista straniero che gli aveva promesso di portargli la traduzione di un recensione dei suoi libri e poi per un mese non si è più fatto vedere e quella è un’osteria dove non si può stare senza boccale di birra perché arriva il cameriere e te ne porta uno anche senza che tu lo abbia chiamato. E io che mi trovo in quel locale per caso, attratto da un’insegna ammaliante con la promessa di birra di Krusovice, che forse è più buona anche di quella famosa di Velke Popovice che Svejk prometteva allo zappatore Vodicka per dopo la guerra, guardo le mani di Hrabal che estrae dallo stesso sacchetto dei panini una vecchia copia de “L’Espresso” per mostrarmi una sua fotografia scattata di recente, mani nodosissime perché lui ha fatto centocinquanta mestieri — come sa chiunque abbia frequentato anche solo i risvolti di copertina dei suoi libri — e tra i molti salta subito all’occhio quello di custode alla società editrice nazionale dove il suo compito era mandare al macero i libri sgraditi tra cui più di una sua opera; ma siccome lui era giovane ed era un fior di surrealista, pensava bene di raccogliere cocci e brandelli di quei tesori a perdere e portarli a Jiri Kolar, messaggero della musa surrealista a Praga, perché ne facesse collages, cosicché oggi chi trova in una biblioteca un vecchio libretto di Einaudi in cui sono raccolti alcuni di quei celebri collages può assistere ad un teatrino di grandi possibilità abortite, accozzate insieme.
La mia fortuna è di possedere una penna e di averla in mano proprio nel momento in cui quel vecchietto al tavolo vicino — sono tutti uguali i boemi: guarda quello lì come assomiglia a Hrabal — si accorge che la sua non scrive più e si guarda attorno alla ricerca di un ‘altra penna; gliela porgo e lui, dopo averla usata, viene a sedersi al mio tavolo e mi fa vedere un suo vecchio libro, corredato di una foto che lo ritrae trentenne, su cui ha scritto una lunga dedica per un avventore dell’osteria che oggi compie gli anni. E così “l’incredibile è divenuto realtà”, ma non abbastanza perché, accidenti, oggi non è il mio compleanno.
Hrabal ride sornione e ogni tanto si sposta da un tavolo ad un altro per rimediare una tirata di tabacco o una battuta scherzosa: a proposito dei suoi libri si è parlato in più occasioni di scrittura d’istinto, di flusso di coscienza e lui, ogni volta che ne vien messo al corrente, si compiace di tirare in ballo la parlata da osteria, il linguaggio delle bettole, quell’impasto semigergale, croce dei traduttori, che corre nei suoi libri; a Hrabal piace dire che le sue opere sono per lo più registrazioni fedeli di vite e linguaggi altrui, pescate in tane e gargotte di mezza Boemia. Ma confonde volutamente le acque, perché, se di ciarle si tratta son ciarle orchestrate da un maestro di enigmistica, uno che nasconde sotto un velo di loquacità popolaresca un’abilità architettonica impressionante, geometrica, che si rivela non solo nella ciclicità più o meno mimetizzata di temi portanti, ma anche nel ricorrere di trucchi, trappole, indovinelli che impegnano il lettore fino all’ultima pagina, costringendolo a porre attenzione ad ogni minima variazione in un motivo ricorrente, all’uso di maiuscole in luogo di minuscole, di diminutivi, all’interpunzione, perché tutto ha significato; lievi modifiche hanno la funzione di accenti narrativi, segnano la cadenza secondo cui è bene che si svolga la lettura, la prima almeno; in una selva di virgole o di consunzioni è celato un tratto determinante, un’immagine decisiva, un contrasto che varrà poi a decidere della sostanza stessa del racconto; sciarade, giochi e trappole si mostrano come spigoli e facce di un rigoroso cristallo periodico, gli ammiccamenti dell’enigmista sono segnali, istruzioni per il lettore che si vuole accorto e divertito. Hrabal in parte dissimula, ma si rivela quando avverte di fare attenzione ai nomi dei suoi personaggi che sono significativi, e soprattutto quando chiama a modelli Rabelais, Ritma — che si definiva “ludibrionista “— e Hasek.
Anche per Hasek si sono spesi volentieri in Italia aggettivi come “popolare” e “picaresco”, e si parla spesso più di Svejk che non del suo autore, dimenticando sovente la lezione stilistica, di tecnica narrativa — a proposito della quale si può ben parlare di “avanguardia nel senso più proprio — che emerge dalle pagine del romanzo del “Buon soldato Svejk”. E certo un po’ di familiarità con la letteratura in lingua cèca, maltrattata dall’editoria, metterebbe in maggiore evidenza il valore di Ho servito il re d’Inghilterra, dove l’eredità di Hasek è coniugata alla tensione di una trama che impiega tutti gli espedienti dei best seller che inchiodano il lettore; qui Hrabal celebra un matrimonio alchemico fra Hasek e l’era televisiva, tra la Praga dei miti — e miti sono le storielle di Svejk — e le strategie dello spettacolo e della fiction occidentale. E sotto la sapiente “metrica della prosa” — tanto cercata, con alterne fortune, dai simbolisti russi e tanto semplicemente esibita nel “parlato continuo” di Hrabal — di cui è vestita la narrazione, si manifesta l’epoca, in nulla addolcita dall’allegria della composizione, e con essa quel balletto da citrulli che già vorticava intorno al faccione di Svejk, la danza feroce di luoghi comuni e massime morali che imbellettano con una patina dorata il “secolo delle ecatombi”. Ma non si tratta di Storia, per carità, semmai di storia — che scrivere Storia è un lusso da tedeschi, non da Cèchi, da gente che la storia la pensa, non la subisce — e, per non concederle troppo sussiego la si introduce nella coscienza del lettore attraverso una porta di servizio, la si tratta con il distacco clinico con cui si tratta un cliente, oggetto e non soggetto — come forse vorrebbe credere — di un’arte sopraffina e del tutto fine a se stessa esercitata dal maitre.
Ogni notizia che si ha dei cambiamenti — dalla prima repubblica al protettorato nazista, a Stalin — nella cornice storica della vicenda filtra attraverso le conversazioni e le traversie dei personaggi, oppure attraverso le fanfare delle diverse propagande. Non c’è critica o riflessione palese: è la strategia di Hrabal penetrare nel senso comune, assecondarne le linee per farlo esplodere dall’interno, perché lo spunto ironico è affidato ai fatti molto più che ai pensieri, alla storia che accade molto più che alla Storia meditata. Frantumazione e storielle, dunque, orrore e comicità in un romanzo dove c’è tutto ciò che si può chiedere ad un libro avvincente (avventura, denaro maledetto, sesso, spettri, la storia — o la Storia — , persino il mito classico, con Pigmalione e la sua statua di cioccolata) e molto di quello che si può chiedere ad un frammento indimenticabile di grande letteratura. L’accostamento dei materiali è malefico e divertente, e fa sorgere spontanea la domanda sul motivo della scelta di una tale forma “a storielle” per trattare una sostanza serissima e persino tragica. La risposta Hrabal la fornisce proprio nel romanzo: “il divertimento come bisogno metafisico (…) per far sì che divertimento per noi fosse la poesia, le cose e gli avvenimenti belli, perché la bellezza, lei ha sempre un impatto, una portata che tendono al trascendente, vale a dire all’infinito e all’eterno”; e allora al diavolo la letteratura noiosa, perché la cultura non è sofferenza e soprattutto in Boemia dove di sofferenza si ha esperienza da vendere. Hrabal cita volentieri Kafka e Céline e Joyce e altri numi del ventesimo secolo, ma parlando di sé stesso i nomi che usa con più facilità sono nomi cechi e per lo più sconosciuti al grande pubblico italiano. E però fa i conti, al di là di ogni furbesca e molto boema finta ingenuità, con la cultura europea di ogni latitudine e con la storia, che lui come i suoi personaggi attraversa con astuzia e curiosità. Quando vuole superare questo tipo di rapporto con essa, il “passante di Praga” deve smettere gli abiti di cameriere e — l’incredibile diventa realtà — indossare quelli dello scrittore enigmista che parla con la voce della gran letteratura del suo paese e del suo tempo e con quella degli ubriachi dell’osteria All’amo a Stare Mesto, la voce di questo signore dalla mente lucida e tagliente come le calotte metalliche — che ora si presumono brillanti di iodio radioattivo — delle acciaierie di Kladno, di questo signore che ora mi deve proprio salutare per andare a portare all’avventore fortunato il suo libretto con dedica.
di Luca Rastello