Le nuove voci del realismo magico africano

Le vittime della storia e il latte dell’umana dolcezza

di Pietro Deandrea

L’interessante pagina dedicata alla narrativa fantastica africana a firma di Nicoletta Vallorani e Sara Amorosini (cfr. “L’Indice” 2022, n. 6) merita di essere ampliata con uno sguardo sul realismo magico, giacché l’Africa anglofona continua a produrre voci che propongono originali visioni del presente. Ne è un esempio Dimora di ruggine, opera prima della giovanissima Khadija Abdalla Bajaber, vincitrice del Graywolf Press African Prize. La protagonista Aisha, di origini Hadrami come l’autrice, è una ragazzina che vive a Mombasa con la nonna e il padre cacciatore di squali. Di fronte a una vita già pianificata su obbedienza e matrimonio, oppone uno sguardo sfrontato e la propria determinazione. La storia, però, va ben oltre i confini del romanzo di formazione femminile psicologico/realista: quando il padre scompare, Aisha si avventura in mare aperto per cercarlo, salpando sullo scheletro di un preistorico pesce-leviatano in compagnia del gatto Hamza, giallo e ossuto ma anche saggio e parlante. In un lungo viaggio notturno, i due affrontano ogni sorta di creatura marina e si avvicinano al mitico “oltremare”, un’esperienza terrificante accostabile a quella che Daniela Fargione definisce la “svolta acquatica” dell’afrofuturismo nella cornice teorica delle cosiddette Blue HumanitiesDimora di ruggine apre suggestioni ad alterità percettive: “Il gatto non rispose ma il silenzio che accolse la domanda era un ronzio, di per sé un sogno. Era come provare a dormire nei giorni bollenti del ramadan (…) Si pensava soltanto per vibrazioni, sussulti e picchi ottundenti. Affamata, stanca, con l’acume e la nitidezza che il digiuno portava con sé, un pensiero superiore, una limpidezza: un’elevazione insussistente della mente, che di per sé era un sogno sonante.” Suggestioni oniriche e fiabesche (e talvolta fumettistiche) prendono corpo grazie a una lingua eufonica e densa di lirismo, che la traduzione di Alessandra Castellazzi rende con risultati magistrali.

Riportato a casa il padre, nell’ultima parte del romanzo Aisha cerca di realizzare i propri desideri di viaggio per mare, da donna adulta, perché “volere” diventa per lei il verbo più importante. Ma per farlo dovrà affrontare sia non umani (animali parlanti, spiriti incarnati e varie creature) sia mostruose aspettative sociali riguardo a donne e matrimonio. Una dimensione fantastica pervasa dal non umano ma profondamente radicata nel discorso sociale, se non politico, era presente anche negli scrittori africani magico-realisti di generazioni precedenti come Syl Cheney-Coker (Sierra Leone), Kojo Laing (Ghana) e il nigeriano Ben Okri (di cui La nave di Teseo ora ripubblica La via della fame, che con il conferimento del Booker Prize 1991 aveva portato il realismo magico africano sotto i riflettori dell’editoria mondiale). In Dimora di ruggine il gatto Hamza, ad esempio, offre ad Aisha uno sguardo liberatorio, desiderante e creativo sulla religione che la opprime: “Ci si può davvero definire credenti quando si eredita la vera fede come una padella di rame? Senza pensare da soli a come migliorarla e lasciarsi migliorare? (…) Sei forse viva, se non metti in discussione il mondo?” La tradizione dei pionieri del realismo magico si ritrova in Bajaber anche per la sua cifra poetica intrecciata con la presenza, più o meno sotterranea, di lingue africane. Pochi anni fa la stessa casa editrice di Bajaber, 66thand2nd, ha pubblicato un’altra notevole opera prima di natura simile, Kintu dell’ugandese Jennifer Nansubuga Makumbi, che mescola mito e storia in una riscrittura della storia ugandese di ampissimo respiro, anche in questo caso in una cifra percorsa da oralità e multilinguismo.

Altrettanto audace e sorprendente è il romanzo proposto dalla NNE, Una stanza per Ada di Sharon Dodua Otoo, autrice britannica di origine ghanese che vive in Germania e scrive in tedesco. Come Kintu, si tratta di un debutto di grande respiro, dal 1459 fino alla Berlino del 2019; come Dimora di ruggine, si tratta di una storia di sofferenze e conquiste di donne. La prima Ada, ghanese, viene uccisa dai portoghesi che sbarcano sulla Costa d’Oro; la seconda è Ada Byron, personaggio storico che vive nella Londra vittoriana, figlia del poeta e amante di Dickens, genio della matematica e considerata la prima programmatrice di computer; la terza Ada è una donna costretta a prostituirsi nel lager di Mittelbau-Dora nel 1945. Sono tutte vittime della violenza maschile, accomunate da un braccialetto della fertilità proveniente dal Ghana del XV secolo. Ma chi narra le loro storie è una forma-spirito, sempre presente sulla scena sotto forme non solo non umane, ma anche non viventi: un manico di scopa, un battiporta a forma di testa di leone, la baracca dove i soldati vengono a usare il corpo della terza Ada. Tra un’Ada e la successiva, in attesa della sua prossima forma sulla terra, questa narratrice vaga assieme a Dio per il mondo, in cerca dell’anima di Ada per farla reincarnare prima che si perda completamente: “Dio assunse la forma di una brezza. Mi intimidiva abbastanza che riuscisse a fluttuare con tanta grazia, ma la imitai e diventai brezza anch’io”. E nell’ultima parte del romanzo l’entità narrante è “incarnata” nel passaporto della quarta Ada, ghanese che vive a Berlino e aspetta un figlio da un compagno assente. Volendo portare felicità, la scelta non può che ricadere su “un lucente passaporto britannico nuovo di zecca”, con tutti i diritti che questo garantisce a una ragazza africana in Europa, benché ciò non cancelli umiliazioni e discriminazioni: “In Germania Ada diventò Nera di colpo, e se ne accorse subito”. Mentre cerca una casa dove stare (“un posto completamente diverso, dove avrei potuto realizzarmi. Una stanza tutta per me”; il riferimento a Virginia Woolf è presente fin dal titolo), Ada sogna le vite delle sue omonime precedenti. Arriverà forse a chiudere più cerchi, nella propria vita e in quella delle “antenate”.

Colpisce come il traduttore Fabio Cremonesi sia riuscito a infondere, direi a mantenere, una leggerezza che rende godibile questa trama così complessa e ramificata su vari livelli narrativi e interpretativi – leggerezza che raggiunge il suo apice nel beffardo umorismo di Dio, e che sicuramente ha contribuito a rendere Otoo nei paesi di lingua tedesca “non solo una delle autrici più acclamate, ma anche una delle figure intellettuali più prestigiose della sua generazione”, scrive Cremonesi nella sua Nota finale. Un altro pregio di tutte le traduzioni qui menzionate, nessuna esclusa, è il grande rispetto per l’alterità delle lingue africane che si mescolano con l’inglese e il tedesco: un approccio estraniante che raramente cade in tentazioni di razionalizzazione o appiattimento, in sintonia con teorici della traduzione letteraria del calibro di Antoine Berman e Lawrence Venuti. Tanto più necessario in Una stanza per Ada, dove alcuni personaggi mescolano Ga, Twi e Igbo.

Lo stesso vale per Voci in fuga, ultima opera del Premio Nobel 2021 Abdulrazak Gurnah, britannico originario di Zanzibar. È un romanzo che certamente non rientra nel genere del realismo magico: col suo caratteristico tratto leggero, Gurnah dipinge affreschi quasi ipernaturalistici (talvolta culminanti in momenti epifanici), costruendo personaggi indimenticabili, vittime della storia che allo stesso tempo conoscono il “latte dell’umana dolcezza”. Voci in fuga racconta dell’Africa orientale da fine Ottocento agli anni sessanta, compresi gli orrori della dominazione tedesca e della Grande guerra: “Abbiamo mentito e ucciso per questo impero e poi l’abbiamo chiamata la nostra Zivilisierungsmission”, confessa un ufficiale del Kaiser in un momento di sconfortata sincerità. Quando il piccolo Ilyas, figlio di un’unione d’amore tra un’orfana e un reduce askari menomato, comincia a essere “visitato” dalle voci dei defunti, Gurnah apre le porte del suo narrare a un elemento tipico del realismo magico africano: la presenza delle generazioni passate e di altre forme ultraterrene (le Afterlives del titolo originale) necessaria per dare un senso al presente, agli incubi ancora da placare, a vite interrotte dalla storia. Come confessa in modo disarmante Hamza, padre di Ilyas, a chi gli chiede della sua perduta famiglia: “Vuoi che ti racconti di me come se la mia fosse una storia completa, ma io ho solo dei frammenti separati da preoccupanti lacune, domande a cui, se avessi potuto, avrei cercato una risposta, momenti finiti troppo presto o poco significativi”.

pietro.deandrea@unito.it

P. Deandrea insegna letteratura inglese all’Università di Torino