Iniziamo da Calipso
di Elisabetta d’Erme
A chi è spaventato dal testo monstre del modernismo, alcuni studiosi di James Joyce consigliano d’iniziare la lettura dell’Ulisse dal quarto episodio, Calipso, dov’è presentato il personaggio umano ed empatico di Leopold Bloom, evitando così i primi episodi dominati dalla figura spigolosa e supponente di Stephen Dedalus, trait d’union col precedente Un ritratto dell’artista da giovane (1914-1915, poi 1916). In effetti, calcolando che nell’Ulisse ogni episodio racconta all’incirca le stesse cose in stili diversi, si potrebbe tranquillamente posporre o soprassedere alla lettura di Telemaco, Nestore e Proteo che sembrano essere la causa di tanti abbandoni del libro. Leggendo però la nuova traduzione dell’Ulisse di James Joyce curata da Enrico Terrinoni per Bompiani (pp. 2400, € 45), ci si rende conto che ciò sarebbe un gran peccato, perché in realtà la Telemachia è simile a un primo, vertiginoso, giro di prova sull’ottovolante. Con l’apparizione sulla piazzola di tiro della Torre Martello a Sandymount dello “statuario” e “pingue” Buck Mulligan che, levando al cielo gli strumenti per la sua rasatura mattutina, intona Introibo ad altare Dei, osserviamo Joyce gettare le fondamenta e innalzare i pilastri su cui si reggerà l’intera costruzione del suo romanzo. È il momento in cui s’accendono le prime luci su un mondo che, una volta conosciuto, il lettore non potrà più dimenticare. E tra i tanti, innumerevoli, pregi di questa nuova traduzione, c’è proprio quello di rendere godibile l’Ulisse da subito. Qui non è necessario saltare nessun episodio, perché ogni pagina è un’esperienza straordinaria, di quelle che cambiano la vita, che aprono le porte alla mente, che abbattono le barriere, che promettono libertà. L’impresa editoriale a sostegno di questo nuovo progetto traduttivo di Enrico Terrinoni (che ha rivisto radicalmente la sua precedente versione del 2012 per Newton Compton) è di dimensioni imponenti, ed è pensata per restare ben oltre gli imminenti festeggiamenti previsti per il 2022, quando si celebreranno i cent’anni dalla pubblicazione dell’Ulisse. Il volume, che esce nella collana “I classici della letteratura europea”, è il primo al mondo a offrire un’edizione bilingue. Il testo originale a fronte (completo di varianti a stampa e manoscritte) oltre ad essere affiancato dalla traduzione italiana, è arricchito da un’introduzione del curatore del volume e da quattro saggi tematici di Declan Kiberd, Diarmuid Ó Giolláin, Carlo Bigazzi e Fabio Pedone, oltre a una serie di utili apparati critici che facilitano la lettura del testo, quali i riassunti degli episodi, le corrispondenze omeriche, la biografia di Joyce, ma anche le minibiografie di tutti i personaggi presenti nel romanzo, più lo Schema Linati e lo Schema Gilbert-Gorman, le mappe e, a chiusura, circa 100 pagine di note in cui allusioni e fonti sono ampiamente spiegate, come pure tutti i riferimenti musicali, con i testi completi delle arie o canzoni evocate.
Nella sua introduzione Terrinoni – saggista, già traduttore anche di Finnegans Wake e delle Lettere di Joyce, professore ordinario di letteratura inglese all’Università per stranieri di Perugia – sostiene che “Ulysses non è un romanzo realista, perché sfonda le barriere del realismo e le irride facendo parlare anche le scarpe; non è un romanzo introspettivo, perché non concettualizza alcuna analisi del sé e di quel che siamo, semmai si propone di farci vedere quello che non siamo, o meglio, quello che non sappiamo ancora di essere; non è un romanzo, se per romanzo si intende ciò che prima di Joyce era stato fatto con questo genere poroso in tante maniere diverse, e da tanti scrittori differenti (…). Anche Ulysses, come il Wake, è quel che fa, quel che ci fa; come ci cambia, come ci fa vedere il mondo con occhi nuovi, con occhi altri”. L’ambizioso obiettivo che s’è posto Terrinoni è di far sì che il lettore italiano s’avvicini al testo esattamente come il lettore anglofono s’avvicina all’originale, raggiungendo risultati ineguagliati soprattutto in Circe. Escludendo facili soluzioni disambiguanti, la sua versione cerca quindi di mantenere il peculiare straniamento originato dalla struttura sintattica dello Hiberno-English usato da Joyce.
La strada però non può essere solo in salita, quindi – ad esempio – Terrinoni limita all’indispensabile l’uso delle parole composte (o con più di cinque sillabe) che, se in inglese sono forme morfologicamente normali, in italiano risultano spesso illeggibili, come pure il ricorso a localismi o forme dialettali, optando invece per un italiano chiaro e moderno. Le sue scelte traduttive sono tutte rigorose, dalla meticolosa cura nella mappatura dei cluster di cellule semantiche – dna dell’intero corpo narrativo che appaiono lungo tutto il testo e ne rappresentano l’imprescindibile chiave di lettura – fino all’oculato uso degli avverbi nei dialoghi. Nel rispetto dell’idioletto joyceano, Terrinoni arriva anche a optare per decisioni radicali, come ad esempio in Eumeo, il sedicesimo episodio in cui, a differenza delle soluzioni normalizzanti usate nelle varie traduzioni precedenti (De Angelis, Celati, Biondi), rispetta le distorsioni grammaticali e le involute frasi dell’originale, o in Itaca, il diciassettesimo episodio, in cui il tempo verbale delle domande poste dal misterioso catecheta sono espresse usando il passato prossimo, anziché il più letterario passato remoto usato da tutti gli altri traduttori, scelta che risulta vincente perché – oltre a essere più attuale – dà la sensazione che le domande vengano poste al lettore, che sembra acquisire così un ruolo più attivo rispetto a quello suggerito col passato remoto.
Fino ad arrivare a Penelope, l’episodio che chiude il libro e che Joyce aveva già denudato di ogni forma di punteggiatura, pause e coniugazioni, e dove Terrinoni elimina (come nella traduzione francese rivista da Joyce) anche apostrofi, accenti e addirittura tutte le H nel tempo presente del verbo avere. Scelte ampiamente giustificate nelle note esplicative. Dunque, una traduzione sensibile alle molteplici e stratificate istanze poste da quest’opera aperta per eccellenza, che pertanto vive d’infinite riletture e di sempre nuove, benvenute, traduzioni.
Così, in contemporanea a Bompiani, è uscito anche un altro Ulisse, curato da Alessandro Ceni e pubblicato da Feltrinelli (pp. 1021, € 19) corredato da note, una scheda biografica di Joyce e una bibliografia essenziale; mentre per l’anno prossimo è annunciato un ulteriore Ulisse per i tipi di Mattioli 1885 a cura di Livio Crescenzi. Sulla scia di quello di Gianni Celati, l’Ulisse di Alessandro Ceni – poeta, pittore e traduttore fiorentino classe 1957 – si presenta come una “versione d’autore” e ha i pregi e i difetti di questo genere di traduzioni, che tendono a peccare d’esibizionismo protagonistico. Superato l’iniziale shock dell’incipit: “Sontuoso, polputo Buck Mulligan giunse dal caposcala recando una ciotola di schiuma su cui uno specchio e un rasoio erano in croce posati”, il lettore si trova di fronte a una traduzione formalmente corretta, spesso con soluzioni gradevoli, ma purtroppo appesantita da una serie di zavorre lessicali, come ad esempio l’uso gergale per indicare il sistema monetario (svanziche e baiocchi per i banali penny e scellini), la traduzione dei soprannomi dei personaggi minori (come Vampa Boylan per Blazer Boylan o Pisciachiaro Burke per Pisser Burke), dei toponimi e delle folk songs (impossibile tradurre la ballata The Croppy Boy con Il ragazzo rapato), da un abuso di lunghe parole composte, addirittura anche quando non sono presenti nel testo di partenza, e soprattutto dall’ossessivo ricorso a toscanismi (a partire dai fastidiosi “codesto” e relative variazioni), e a termini desueti, arcaici e rari, tanto che si rende spesso necessario compulsare un dizionario d’italiano per comprendere il significato di parole quali: tornichetto, vescia, zanella, giacchiata, ciabare, broscia, sciavero, nanno, baglio, canapale, eccetera che sono in drammatico contrasto con la modernità del vocabolario utilizzato da Joyce e ancora attualissimo. Di conseguenza il linguaggio scelto da Alessandro Ceni tende a uniformare lo stile dei diciotto episodi, notoriamente famosi per la loro singolare originalità. Il risultato è una lettura piuttosto tediosa, in particolare quando prevale la tendenza del traduttore a esagerare anche dove non è necessario. Forse per questo Ceni dà il meglio di sé negli episodi più acrobatici che richiedono sfoggi di roboante eloquenza come in Ciclopi, Nausicaa, Eumeo o Itaca. Da artista, il suo approccio al testo è visuale. “Leggere l’Ulisse – scrive nell’Introduzione – è come guardare da troppo vicino la trama di un tessuto. Spesso a rovescio. Per poi allontanarlo. E quindi riavvicinarlo. In un continuo movimento (…) durante il quale si ha coscienza e si dà contezza dello spazio e del tempo in cui esso avviene e dei sensi in atto. Questo processo diciamo ottico-cognitivo, incantatorio com’è proprio della sua qualità cinetica, incessantemente mettendo a fuoco e mandando fuori fuoco (offrendoci di volta in volta primi piani della fibra stessa del tessuto e campi lunghi dell’insieme dell’intreccio) ci conduce alla tutt’altro che stabilizzante condizione di trovarsi dentro e fuori dal testo contemporaneamente”.
Con queste versioni di Terrinoni, di Ceni e quella in arrivo di Crescenzi, il nostro paese s’assicura il ragguardevole primato d’avere il maggior numero di traduzioni dell’Ulisse esistenti al mondo, dalla prima storica edizione di Giulio De Angelis del 1960 (Mondadori) alla traduzione del 1995 firmata dall’allora venticinquenne Bona Flecchia (Shakespeare & Company), a quelle di Enrico Terrinoni con Carlo Bigazzi del 2012 (Newton Compton) e di Gianni Celati del 2013 (Einaudi) fino alla superba prova di Mario Biondi del 2020 (La Nave di Teseo: cfr. “L’Indice” 2020, n. 9). Chi ora volesse avvicinarsi a questa bibbia laica non ha più scuse, solo l’imbarazzo della scelta.
dermowitz@libero.it
E. d’Erme è studiosa di letteratura irlandese