Le novità di “Tempesta in giugno” di Irène Némirovsky

Un romanzo per tempi di guerra, allora e ancora

di Elena Quaglia

La recente pubblicazione di Tempesta in giugno presso i tipi di Adelphi rappresenta senza ombra di dubbio un appuntamento con la storia. Quella di cui parlava Georges Perec, cioè la storia universale che travolge le popolazioni in occasione delle guerre e delle grandi catastrofi, ma soprattutto di quella “storia umana” che Irène Némirovsky intendeva illuminare con la sua penna e che rende vividamente attuali i personaggi rappresentati, tra bassezze e meschinità (molte) e barlumi di eroismo. Inoltre, ci troviamo di fronte a un appuntamento con la storia della letteratura e con una storia editoriale fuori dal comune. Tempesta in giugno è, innanzitutto, un capolavoro letterario. Némirovsky ne era consapevole, lo sappiamo grazie alle sue frenetiche annotazioni, alla sua indefessa riscrittura, prima dell’arresto e della deportazione ad Auschwitz nel 1942. Inizia a esserne consapevole anche la critica letteraria, quasi vent’anni dopo la riscoperta dell’autrice con la pubblicazione di Suite francese nel 2004 (in Italia per Adelphi, 2005). In questo senso, molto si deve al lavoro filologico ed esegetico di Teresa Lussone, ricercatrice di Bari, che ha portato alla luce, con la sua edizione di Tempesta in giugno, la terza versione della prima sezione dell’ormai celebre romanzo postumo, sopravvissuto rocambolescamente alla guerra, trasportato in valigia dalle figlie dell’autrice in fuga. Adelphi ne ha accolto la pubblicazione, contribuendo così ulteriormente alla diffusione in Italia dell’opera della scrittrice e dando meritoriamente spazio non solo alla sua immensa produzione, ma anche al lavoro di ricerca a essa correlatoTempesta in giugno, in quanto rielaborazione della prima sezione di Suite Francese, non è in toto un inedito, eppure ha l’aspetto di una novità editoriale, perché porta a esiti ancora più audaci e innovativi rispetto alla versione precedente, esiti che Teresa Lussone illustra brillantemente nella Postfazione.

Per un lettore di Némirovsky della prima ora, si tratta sicuramente di una riscoperta. Mai come in queste pagine l’autrice ha uno sguardo sociologico così acuto e profondo, che la avvicina in maniera inattesa ad autori contemporanei tra i più attenti a riprodurre le dinamiche di classe. Troviamo così personaggi in grado di riconoscere con sicurezza l’appartenenza sociale dei propri compagni di esodo e pronti ad agire di conseguenza. La lente della narrazione, che Némirovsky rende in questa versione ancora più neutra e priva di giudizi, filtra con un’inevitabile ironia i comportamenti della rispettabilissima signora Péricand, che mette sullo stesso piano il fatto di aver portato in salvo gioielli e denaro e i propri figli (dimenticandosi tuttavia del suocero moribondo), o ancora lo snobismo di intellettuali ed esteti di fronte allo squallore da cui vengono sfiorati nel corso della fuga da Parigi.

Particolarmente significativa è la figura dello scrittore Gabriel Corte, a cui la “collega” Némirovsky dedica alcune tra le pagine più grottesche del romanzo, quelle del suo arrivo al Grand Hotel dopo l’esodo, dove il più grande dramma della disfatta della Francia sembra riguardare l’approvvigionamento di whisky e cipria dall’Inghilterra: notevole la descrizione dell’ossequioso e gradito servilismo del portiere e del bagno profumato che sembra riportare alla mente di Corte, in una parodistica rievocazione proustiana, “le delizie dell’infanzia”. Tuttavia, lo scrittore è improvvisamente afflitto da una grande preoccupazione: la guerra costringe a cambiare stile, come lui aveva già fatto nel 1920, ma non era più in grado di fare nel 1940. Emerge così, sullo sfondo e in contrasto, la riflessione che ha guidato la scrittura di Némirovsky negli ultimi anni: consapevole di lavorare su un materiale di “lava incandescente”, si impegna in una rivoluzione stilistica, pensando evidentemente ai lettori del futuro.

I lettori di oggi si trovano effettivamente di fronte a un racconto di guerra che si rivela senza tempo. Nel romanzo, numerosi personaggi e comparse alludono alle guerre passate, al 1870, alla battaglia della Marna, come se i corsi e i ricorsi storici li cogliessero preparati e quasi arresi a un destino che si ripete, forse in modo più confuso e sbiadito, come se fosse prevedibile e ineluttabile. L’orrore della guerra, pure reso con immagini crude e suggestive come quella delle “carcasse di case” sopravvissute a un bombardamento, fa in effetti solo da sfondo alle vicende umane, dominate da un istinto vitale di sopravvivenza. Tale istinto è ben sintetizzato dal personaggio di Langelet con l’immagine del Diluvio universale (che il titolo Tempesta chiaramente evoca), prima del quale e dopo il quale gli uomini svolgevano le medesime attività. È inevitabile pensare alla guerra che si svolge oggi nella terra di origine dell’autrice, l’Ucraina, che, pur in un’era mediatica completamente diversa rispetto al contesto nel quale Némirovsky scriveva, ci ha inizialmente sconvolti e ben presto assuefatti.

Nei suoi appunti, la scrittrice sintetizza con una frase, reminiscenza di un’omelia ascoltata in una chiesa parigina, lo spirito del suo romanzo sulla guerra: “Quanto siamo piccoli, fratelli, e quanto siamo grandi”. Di fronte a un destino inatteso, l’uomo è fragile, ma può ugualmente scegliere di non sottrarvisi. Tra le piccole meschinerie che dominano il romanzo, emerge, solitaria, la figura di Philippe Péricand, nella sua “maestà divina”. Il personaggio di Philippe è la grande novità di Tempesta in giugno, rispetto alla precedente versione del testo e porta alla luce la riflessione sulla grazia che ha animato sotterraneamente gli ultimi anni della vita e della scrittura di Némirovsky e su cui la critica sta finalmente facendo luce. L’avvicinamento alla religione cattolica di Irène, lungi da ogni opportunismo, si allinea perfettamente con lo sguardo sull’umanità che muove il romanzo: ironico ma anche compassionevole, disincantato eppure partecipe. Ne esce un testo attualissimo, che ci fa sentire piccoli ingranaggi della grande storia.

elena_quaglia@hotmail.it

E. Quaglia è dottore di ricerca presso l’Université de Paris Nanterre

 

Il Temporale e la Tempesta

di Teresa Lussone

 

Tutto quello che riguarda Suite française ha qualcosa di romanzesco: le condizioni in cui fu scritto, la vicenda editoriale che ha portato alla prima edizione nel 2004, la riscrittura della prima parte del romanzo, Tempête en juin, la traduzione di quest’ultima. Traduzione o ritraduzione, giacché quella appena pubblicata da Adelphi è una traduzione solo in parte inedita. Il testo di partenza, infatti, è stato quello di Laura Frausin Guarino pubblicato nel 2005, che ho integrato per le parti inedite e adattato all’ultima versione dell’opera. Ricercatrice più che traduttrice, ho provato un certo timore reverenziale verso questa traduzione incredibilmente elegante e accurata, che mai sarebbe stata rimaneggiata se non fosse stato per questa vicenda editoriale.

Prima di cominciare, ho riletto tutte le traduzioni dei romanzi di Némirovsky uscite per Adelphi, tra cui quelle di Laura Frausin Guarino e Marina Di Leo: il successo della scrittrice in Italia si deve anche alla bellezza e all’efficacia delle loro traduzioni. Laddove possibile, ho ripercorso le loro scelte – per esempio, come loro avevano fatto, ho deciso di mantenere il plurilinguismo – e ho ripreso alcune scelte lessicali. È certo, però, che l’imitazione dello stile delle due traduttrici che prima di me avevano dato voce a Némirovsky mi avrebbe portata a risultati grossolani, tanto più che i loro testi non sono – a buon diritto – ossessivamente uniformi. Ma soprattutto, procedendo nel lavoro mi sono accorta che questa postura, il tentativo di seguire quanto più da vicino possibile il modello proposto dalle altre traduttrici, rischiava di distogliermi da un dato fondamentale: Tempête en juin è un romanzo diverso da tutti gli altri di Irène Némirovsky, lo è nella struttura, nei temi, nello stile, nella lingua. Il romanzo si regge su quella che Némirovsky chiama “impareggiabile arte dei contrasti”: a poche pagine di distanza leggiamo la descrizione di un cielo dolce e trasparente, dei tetti che luccicano, dei marciapiedi rischiarati dalla luna, poi, poco dopo, ci troviamo dinanzi una scena più prosaica, un litigio tra una donna e l’amante, l’uomo quasi la spintona, lei gli lancia improperi. Anche per il lessico si tratta di un testo differente da tutti gli altri romanzi, dove troviamo per la prima volta il linguaggio della fede che testimonia la conversione della scrittrice negli ultimi anni di vita.

Da una versione all’altra del romanzo, si scorgono in maniera assai evidente le tracce della ricerca di uno stile differente per raccontare in presa diretta la guerra e l’esodo che sconvolgono la Francia: la nuova traduzione doveva anche testimoniare questa ricerca formale. Inoltre, dall’ultima stesura emerge una nuova interpretazione complessiva del romanzo che talvolta ha portato alla necessità di tradurre in modo diverso alcuni passaggi che pure erano privi di varianti (se non fosse così, allora la traduzione sarebbe un passaggio da una parola a un’altra). È il caso del titolo, tradotto nel 2005 da Laura Frausin Guarino come Temporale di giugno. Quando comincia a pensare al suo romanzo sulla disfatta della Francia, la scrittrice parla di séries des Tempêtes, poi conserva il titolo Tempête solo per la prima parte. Nell’ultima versione del romanzo il ricorso alla metafora della tempesta è più frequente e soprattutto assai più incisivo. Molto più chiaramente di quanto avesse fatto nella prima stesura, Irène Némirovsky rappresenta i parigini che scappano da Parigi e l’esercito in rotta come “come una nave in avaria che sprofonda nel mare”. Mentre nella prima versione l’esodo coglieva alla sprovvista la società francese proprio come un temporale estivo, nella nuova versione esso rappresenta in maniera più violenta un evento eccezionale che agita la Francia, la travolge, lascia relitti dietro di sé: il Temporale si è tramutato in una Tempesta.

teresa.lussone@uniba.it
T. Lussone insegna letteratura francese all’Università di Bari