Lazarillo: una meraviglia di humour, umanità e inganno stilistico | Segnali

Preti, donne e mariti cornuti nella Toledo di Carlo V

di Aldo Ruffinatto

Lodevole e coraggiosa la decisione di Adelphi di pubblicare una nuova traduzione italiana del Lazarillo, affidata a un classicista dell’Università Pontificia Comillas di Madrid (Angelo Valastro Canale) e di riproporre il tutto (testo originale spagnolo e traduzione) sotto l’egida di un ispanista di sicura fama come Francisco Rico.

Decisione lodevole perché in tal modo si compie il nobile gesto di offrire maggiore diffusione presso il pubblico italiano a un capolavoro della letteratura aurea spagnola spesso trascurato o comunque non sufficientemente valutato nei suoi termini pertinenti. Decisione coraggiosa perché essa segue a breve distanza (poco più di un anno) un’altra traduzione italiana del Lazarillo con testo a fronte proposta da uno specialista di grande rilievo come Antonio Gargano, per Marsilio. Ma se quest’ultima appare chiaramente rivolta a un pubblico di lettori esperti e competenti in materia, ai quali Gargano propone una dotta introduzione di un centinaio di pagine, oltre a un ricco commento in forma di note erudite, aggiornate e scientificamente corrette, l’edizione di Rico-Valastro, invece, aspira a raggiungere un pubblico più vasto, composto da lettori curiosi e desiderosi di immergersi in questa “meraviglia di humour e umanità” (come lo definisce Rico nella sua breve introduzione al testo) con le informazioni di base, necessarie per chiarire alcuni aspetti dell’opera in una fase di prima approssimazione. Un pubblico al quale, tuttavia, non dovrebbe essere trasmesso un testo (e relativa traduzione), riveduto e corretto sulla base delle capacità divinatorie dell’editore, perché in tal modo si rischia di sconvolgere la volontà dell’autore proponendo un’immagine, magari suggestiva, ma sicuramente deformata, del prodotto originale. E mi spiego.

Il Lazarillo o, per meglio dire, La vita di Lazarillo de Tormes e della sua avversa fortuna (La vida de Lazarillo de Tormes y de sus fortunas y adversidades), ci è pervenuto grazie alla pubblicazione, nello stesso anno 1554, di quattro edizioni in località diverse, tre in Spagna (Medina del Campo, Alcalá de Henares e Burgos) e una fiamminga (Anversa). Queste quattro edizioni, pur essendo tra di loro leggermente diverse (in particolare, Alcalá contiene aggiunte di non poco peso), concordano unanimemente nel proporre un titolo (quello indicato sopra) e nell’organizzare la materia narrativa secondo uno schema ben definito: un prologo e sette capitoli, denominati Trattati (Tratados). Il tutto sotto un minimo comun denominatore rappresentato da un’istanza epistolare ben evidenziata nel prologo: “E poiché Vossignoria scrive che le si scriva e racconti il caso per esteso, mi è parso giusto di prenderlo non dal mezzo, ma dal principio, perché si abbia intera notizia della mia persona”. Stando così le cose, Francisco Rico ritiene che l’istanza epistolare espressa nel prologo sia dominante e indicativa della volontà dell’autore e che quindi il testo debba essere pubblicato eliminando il titolo, la divisione in capitoli e sopprimendo tutte le epigrafi sottese ai capitoli, in quanto inutili e dannosi orpelli dovuti, secondo lui, all’iniziativa autonoma degli stampatori dell’epoca. Un’ipotesi che può essere condivisa o meno dagli addetti ai lavori, ma che non toglie a questa edizione del Lazarillo un’impronta di singolarità, dovuta alla sovrapposizione delle competenze editoriali di uno studioso moderno a una realtà espressa in altro modo dalle testimonianze antiche dell’opera.

Fatte queste doverose premesse, occorre precisare che anche in questa veste editoriale il Lazarillo mantiene tutto il suo fascino e non perde nulla o quasi nulla dell’accattivante messaggio che riesce a trasmettere mediante gli artifici dell’ironia, dell’inganno per gli occhi e della conseguente ambiguità, e per mezzo di un impianto linguistico che prelude alla polifonia, negli stessi termini indicati da Bachtin per la narrativa di Dostoevskij. Si tratta, infatti, di un testo narrativo estremamente complesso che tende a nascondere la sua autentica chiave di lettura sotto una disarmante apparenza di semplicità. Quella di un giovane banditore toledano che tutti chiamano Lázaro de Tormes e che nell’epoca dei trionfi di Carlo V imperatore, su precisa richiesta di un non meglio definito “Vuestra Merced” (equivalente, grosso modo, a “Vossignoria”), s’impegna a raccontare le proprie tristi esperienze esistenziali in forma autobiografica, suddividendole in varie tappe.

Nulla di straordinario, si potrebbe pensare, visto che questo modello narrativo affonda le proprie radici addirittura nella classicità greco-latina, trovando un punto di riferimento concreto nell’Asino d’oro di Apuleio. E non è eccezionale neppure il fatto che in tal modo (cioè descrivendo il misero mondo con il quale il protagonista si trova costretto a fare i conti, un mondo di medicanti ciechi e malvagi, chierici avari, nobiluomini poveri in canna, frati libertini, squallidi venditori di bolle papali e altri individui poco raccomandabili) l’anonimo autore del Lazarillo disegni un profilo ironico-realistico della società del tempo. Non lontani dal Lazarillo, infatti, sono gli anni in cui Erasmo e gli erasmisti spagnoli (Alfonso de Valdés, in particolare) cercavano di colpire i principali vizi della società del tempo con analoghi procedimenti ironico-satirici. In verità, realismo, satira sociale, struttura antifrastica fanno sicuramente parte delle batterie messe in campo dal creatore del Lazarillo, ma non ne costituiscono l’elemento portante, né tanto meno appaiono in grado di offrire una chiave di lettura valida e sufficiente per capire fino in fondo il vero significato dell’opera e la ragione per cui essa si stagli nell’universo letterario spagnolo del Cinquecento come una stella di prima grandezza.

A un osservatore attento, infatti, non può sfuggire un dettaglio fondamentale di questo edificio narrativo, ovvero quello promosso da una tecnica artistica che si suol denominare trompe-l’oeil: un inganno per gli occhi, come già si è detto, che ha causato una miriade di letture denotative del testo e comunque inadatte a spingersi oltre la superficie ingannevole del manufatto. Naturalmente, il principale artefice di questo inganno è lo stesso narratore (Lázaro) che, interpellato (non importa se ufficialmente o ipoteticamente) da un personaggio di alto rango (Vuestra Merced) a proposito di un “caso” scandaloso del quale si fa un gran parlare nella città di Toledo e che lo vede coinvolto in veste di marito cornuto e consenziente (nella Spagna dell’epoca a questi individui si attribuiva la qualifica di “sufridos”), anziché dare risposte precise al riguardo, magari con una confessione, preferisce prenderla alla larga raccontando la storia della sua vita, dal momento in cui, essendo lui adolescente, la sua vedova e anche un po’ “allegra” madre lo affida alle cure di un cieco, un perfido e astuto mendicante dal quale Lázaro riceve i primi insegnamenti di vita, fino al momento in cui sempre con l’aiuto dei “buoni” maestri riesce a raggiungere il “culmine di ogni buona fortuna” nella veste di ufficiale giudiziario (“banditore, per parlare chiaro”) incaricato di accompagnare i condannati al patibolo proclamandone i delitti e di dirigere le vendite all’asta dei vini e degli oggetti smarriti. Un “curriculum”, per così dire, brillante che, nelle esplicite intenzioni del narratore, dovrebbe collocarsi a sostegno delle ben note tesi umanistico-rinascimentali in favore degli homines novi (cioè come modello di ascesa sociale da parte di chi ha dovuto lottare contro l’avversa fortuna dovuta alle umili origini).

 

E in questo senso, la descrizione che il narratore propone delle sue esperienze esistenziali potrebbe essere considerata soddisfacente, seppure nei termini volutamente antifrastici di un mondo alla rovescia (non possiamo certo dimenticare che intorno a questo tema la critica, vecchia e nuova, ha versato e continua a versare fiumi d’inchiostro). Ma, nel contempo, non possiamo trascurare la specifica funzione di questa pseudo-autobiografia elaborata dal banditore toledano, quella cioè di creare un accattivante trompe-l’oeil adibito a nascondere o a mascherare la terribile e pericolosa verità retrostante; in altre parole, la finzione autobiografica al servizio dell’indicibile o dell’inconffessabile.

Non per nulla, la verità si colloca esattamente in coda al percorso narrativo (in cauda venenum) e s’identifica con il “caso” per il quale Vuestra Merced sollecita una risposta o una confessione. Il narratore Lázaro, infatti, dopo aver denunciato il suo grande successo come pubblico e privato banditore, informa che uno dei suoi clienti affezionati, l’arciprete della parrocchia toledana di San Salvador, dei cui vini egli era venditore, l’aveva invitato a prendere per moglie la sua fantesca; proposta accolta senza riserve da Lázaro considerati i favori materiali (grano, carne, abiti dismessi) e logistici (“ci fece affittare una casetta al lato della sua”) derivanti da questo matrimonio. Poi, a conferma del patto scellerato concluso con l’amico prete, liquida come voci maligne e prive di fondamento quelle relative al comportamento della moglie che continua a entrare e uscire dalla casa dell’arciprete in tutte le ore del giorno e della notte, e non ritiene di dover dare nessun credito alle voci secondo le quali la moglie sarebbe rimasta incinta per ben tre volte prima di sposarsi con lui. Per concludere con una intrigante considerazione che dovrebbe mettere a tacere le malelingue: “Quando sento qualcuno che vuole dirmi qualcosa di lei, lo interrompo e dico: ‘badate, se mi siete amico, non ditemi cose che possono dispiacermi (…) Dio mi fa con mia moglie mille grazie e più bene di quel che merito, per cui giuro sull’ostia consacrata che è una donna così onesta come tutte le altre che vivono entro le porte di Toledo; e chi mi dirà una cosa diversa, verrò alle mani con lui”.

Perfetto! Il piatto è servito. L’inconfessabile è stato confessato, perfino con dovizia di dettagli e in assoluta aderenza con quanto si diceva a quel tempo a proposito dei preti e delle donne toledane: “Di modo che i patroni di Toledo – scriveva Andrea Navagero a Giovan Battista Ramusio nel settembre del 1525 – e delle donne precipue, sono i preti, i quali hanno bellissime case, e trionfano, dandosi alla miglior vita del mondo, senza che alcuno li riprenda”. Così il marito “sufrido” è riuscito, con un meraviglioso gioco d’inganno per gli occhi, a confessare tutta la verità senza correre nessun rischio (è bene ricordare che a quei tempi i mariti cornuti e consenzienti erano perseguitati dalla giustizia).

ruffinat@unito.it

A. Ruffinatto è professore emerito di letteratura spagnola all’Università di Torino