recensione di Renato Leoni
Lars Gustafsson
Storie di gente felice
traduzione dallo svedese di Carmen Giorgetti Cima
pp. 211, € 17
Iperborea, Milano, 2020
Nella postfazione firmata da Carmen Giorgetti Cima di Morte di un apicultore si può leggere: «Tracciare in poche pagine un ritratto quanto più possibile esauriente dello svedese Lars Gustafsson non è facile impresa nemmeno per chi abbia una certa dimestichezza con la letteratura svedese degli ultimi decenni, le sue tendenze e i suoi protagonisti». È vero. Ogni esegeta dell’autore nei vari apparati critici di corredo ai libri ha messo le mani avanti: è riduttivo definire Gustafsson uno scrittore e un filosofo. Dal 1957 fino alla scomparsa nel 2015, Lars Gustafsson ha pubblicato un libro quasi ogni anno, lasciando tanto di uscite postume. Gli argomenti e la conoscenza non gli mancavano certo. Di fronte al curriculum di Gustafsson sembra di essere al cospetto di un dotto del Rinascimento: laureatosi in filosofia tra Uppsala e Oxford, a lungo docente negli Stati Uniti, pluripremiato in tutta Europa (ricordiamo nel ’96 il Premio Grinzane Cavour, e il Premio Thomas Mann nel 2015) e in aggiunta anche la nomina di Chevalier des Arts et des Lettres in Francia; poeta, saggista, voce autorevole e talvolta controcorrente nel dibattito svedese, fine conoscitore delle arti e della musica in particolare. A cavarsela meglio di tutti nel definire Gustafsson è stato forse Carl Gustav Bjurström, nell’introduzione a Preparativi di fuga: al primo rigo, al nome di Lars Gustfasson appone un asterisco diabolico, di rimando alla nota finale:
«(*) Gustafsson, Lars, stessa data di nascita e stesso nome dei protagonisti di molti suoi romanzi, professore ad Austin, Texas e coscienza vibrante a Stoccolma, Svezia. Uno degli scrittori marcanti della sua generazione, forse il più marcante. Sa tutto (filosofia, linguistica, scacchi, giardinaggio, letteratura, geografia, economia, pedagogia, aerostatica, geologia, politica, musica, storia della letteratura, astronomia, informatica, golf, alpinismo, cucina, archeologia, tennis, fisica, comunicazioni, tedesco, tabacco, strategia, matematica, storia della filosofia, storia della fisica, avvenire dell’Europa, economia, diritto, paleografia, paleontologia, parapsicologia, parafulmini, Mozart, Monteverdi, Marx, Moby Dick ecc.). Numerose opere, uno, due, tre volumi all’anno dal 1959, cioè grosso modo circa 64 volumi: romanzi, poesie, saggi, trattati di filosofia, resoconti di viaggi, racconti, articoli, riassunti, antologie, collezioni, scelte, serie…»
Morto nel 2016, Gustafsson ha lasciato alle sue spalle un’opera monumentale. In Italia è stato introdotto da Bompiani nel 1972 con L’autentica storia del signor Arenander, per poi diventare uno degli autori di prestigio di Iperborea con ben tredici titoli pubblicati. Come si diceva, lungo la sua carriera Gustafsson è stato insignito di numerose onorificenze, eppure non è mai stato un intellettuale accomodante: la sua opera è costellata da un’idea critica nei confronti della società svedese contemporanea, che Gustafsson riteneva strutturata su uno stato potente, pervasivo, tentacolare; non è un caso, forse, il suo sostegno dichiarato a un progetto politico come quello del Partito dei Pirati.
Storie di gente felice, pubblicato per la prima volta nel 1981, contiene dieci racconti nei quali si possono ritrovare disciolti tutti i temi principali dell’opera di Gustafsson: l’infanzia svedese, un personaggio di nome Lars, diverse esperienze americane, critiche allo sviluppo della socialdemocrazia, riflessioni sullo spazio dell’individuo, speculazioni su musica, giochi e scelte varie, vite di filosofi e sovrani, rivoluzioni novecentesche, paesaggi naturali, rimandi ad altre opere… La peculiarità dei temi da lui affrontati, tanto da valergli anche la definizione di Borges del Nord (ma è un titolo che benché generoso sa di degradante, come di sostituto narratore boreale, supplente di: Gustafsson brilla benissimo di luce propria) potrebbe far pensare a un autore oscuro, di difficile lettura. Così non è, anzi: lo stile di Gustafsson, persino nelle opere più sperimentali, è improntato a una discorsività semplice e diretta. Gustafsson può anche presentare al lettore una teoria di fisica quantistica sconosciuta a chi è digiuno di scienze, ma da buon docente ha ben chiara la virtù della semplificazione. Della continuità tra studi e produzione artistica, e di come definirsi, Gustafsson diede una buona risposta ad Ingrid Basso (attenta studiosa di Kierkegaard e postfatrice di quest’ultima uscita) in un’intervista del 2015 per “il manifesto”: «Spesso non vedo un confine netto tra i due generi (filosofia e letteratura, ndr), e tendo a considerarmi un filosofo che ha fatto della letteratura uno dei suoi strumenti fino a farla diventare parte integrante della sua filosofia».
Farsi carico di concetti sui quali l’uomo si interroga da millenni, su tutti il senso dell’essere, è sempre stato lo stimolo dell’attività di quest’autore. Sembrava un moderno Sisifo il tapino Janne che vaga per sopravvivere in L’uomo sulla bicicletta blu, così come sembrano anime costrette a vivere i protagonisti di Storie di gente felice. Ci si può chiedere: perché felici? In che modo? Il libro inizia con un disincantato professionista svedese in viaggio di lavoro nella Cina della rivoluzione culturale (e ricordiamo che Gustafsson vide qualcosa di originale in quell’evento, da convinto liberale) e finisce con la disillusione di un mostro sacro come il filosofo di Röcken in fuga (o in cerca?) da se stesso. Si passa attraverso ad amori infelici, malattie mentali, paesi inariditi, e ci si chiede sempre: perché gente felice?
Ogni protagonista delle storie di Gustfasson può sembrare in fin dei conti una figura banale, costretta nella ricorsività di una vita prevedibile. Ma è da questa loro conclamata banalità che scaturiscono i grandi stravolgimenti cui l’autore li sottopone. Ogni vita si apre con una ridda di possibilità, è chiaro, ma solo una strada è percorribile escludendo tutte le altre. Nel momento in cui un personaggio ne è cosciente, a giochi fatti, può benissimo precipitare in un abisso di insensatezza, avvilimento e – forse – tentare di risalire (ma non può ricominciare mai veramente da zero). E così possiamo decifrare delle metafore, dichiaratamente amate da Gustafsson (autoproclamatosi figlio del simbolismo e del modernismo in chiave antinaturalista), in ogni vicenda descritta: è evidente la teoria delle scelte e delle possibilità in un racconto evocativo già nel titolo come Le quattro ferrovie di Iserlohn.
Diverse realtà storiche offrono diversi sviluppi esistenziali, e lo si vede nel confronto tra un occidentale e un cinese durante la rivoluzione culturale nel racconto di apertura Zio Sven e la rivoluzione culturale, negli infiniti spazi americani di Quel che non ci uccide, tende a renderci più forti, i riferimenti alla Svezia natia in Un racconto d’acqua, la Grecia moderna di I fuggitivi scoprono che non sapevano niente, o saltando direttamente ad altre epoche storiche nel caso di Fuori dal dolore. Due salti di qualità: la vita vissuta da un soggetto diversamente abile in La grandezza colpisce ancora e la sofferenza di una paziente in L’uccello nel petto: in questi casi il grado di realismo della voce narrante slitta verso la percezione di soggetti in grado di percepire “altri” aspetti dell’esistenza, È quella che Gustafsson stesso definì estetica della distrazione: fa seguire al lettore le divagazioni mentali dei personaggi, incatenando libere associazioni a fantasie e portando il piano della realtà nella quale sono ambientate le storie a quello del non reale, ma non per questo privo di logica nel suo insieme. E forse, per capire qualcosa della felicità che si nasconde in queste storie, per questi personaggi, si potrebbe concludere con questo passaggio: «La finezza di tutto questo lo rendeva spesso felice: Si era creato da sé il proprio significato».