di Beatrice Manetti
Jean Rhys
Viaggio nel buio
ed. orig. 1934, trad. dall’inglese di Delfina Vezzoli
pp. 177, € 18
Adelphi, Milano 2020
L’esperienza dello sradicamento, e prima ancora del decentramento dell’identità, è la perla nera situata al cuore della biografia di Jean Rhys, nata Ella Gwendolen Rees Williams nell’isola di Dominica, al tempo una colonia britannica nelle Piccole Antille, da padre inglese e madre creola di origine scozzese. Jean Rhys diventa una scrittrice grazie all’incontro con la “festa mobile” europea dei primi anni Venti, ma senza la memoria ambivalente, fatta di fascinazione e timore, del proprio passato tropicale non avrebbe potuto svelarne il lato oscuro; pensa nella lingua asciutta e risonante del modernismo, ma sogna in creolo; attinge ossessivamente, nei suoi libri, alla propria vita di deracinée – donna, povera e straniera in un mondo maschilista, capitalista e razzista – ma di quella sofferenza personale riesce a fare non tanto un tema, quanto un formidabile punto di osservazione sulle origini economico-culturali e sui meccanismi sociali della subalternità.
Viaggio nel buio, che Adelphi ripubblica nella traduzione impeccabile di Delfina Vezzoli (già uscita nel 1986 nell’indimenticata collana Astrea di Giunti), appartiene alla prima fase della produzione di Jean Rhys, quella che tra la fine degli anni Venti e la metà degli anni Trenta proietta l’esperienza dell’autrice in un idealtipo e in uno schema narrativo ricorrenti: come le protagoniste di Quartetto, Addio, Mr Mackenzie e Buongiorno, mezzanotte – tutti riproposti da Adelphi in un tentativo quanto mai opportuno di “canonizzazione” italiana di una grande scrittrice ancora poco conosciuta – anche Anna Morgan è una giovane donna alla deriva, destinata a smarrire sé stessa sul palcoscenico di qualche teatrino di periferia, in amori clandestini prevedibilmente infelici, nella cronica mancanza di denaro, nella preclusione di qualsiasi possibilità di indipendenza che non sia la messa in vendita di sé. Nel topos fin-de-siècle della ballerina o attricetta “perduta”, Jean Rhys innesta una consapevolezza feroce, rafforzata dal racconto in prima persona, dell’ingranaggio sociale che divora, digerisce ed espelle il combustibile umano necessario al suo funzionamento. L’origine, il genere, il censo si incrociano nel corpo di Anna e concorrono in uguale misura alla sua emarginazione: sotto la patina romantica della delusione d’amore, la giovane protagonista sa bene che “la gente è più a buon mercato delle cose” e le donne sono più a buon mercato della gente; dietro la nostalgia della sua infanzia antillana, ricorda con nitidezza l’odio dei neri per i bianchi e l’odio provato per sé stessa, irrimediabilmente bianca in mezzo ai neri; nella propria vicenda di sedotta e abbandonata, riconosce con precisione infallibile la legge economica che fa di lei “una di quelli con delle vite infernali, che sciamano come gli onischi quando si infila un bastoncino nel loro nido”.
A metà degli anni Sessanta, Jean Rhys distillerà tutto questo vissuto e i suoi precedenti tentativi di dargli una forma nel suo capolavoro, Il grande mare dei Sargassi, dove scava nell’inconscio vittoriano di Jane Eyre con lo sguardo della prima moglie di Rochester, la “pazza in soffitta” Bertha Mason. Viaggio nel buio è un cartone minore di quel libro straordinario, non altrettanto compiuto nella strutturazione dell’intreccio, non altrettanto sperimentale nelle soluzioni narrative e stilistiche, incerto tra la secchezza del referto memoriale e le aperture al flusso di coscienza, ma già sicuro nelle sue premesse “ideologiche”, riassunte in un’immagine che torna come un leitmotiv: le file delle case inglesi lungo le strade inglese, uguali l’una all’altra e tutte ugualmente ostili nella cecità e nella mutezza.