recensione di Maria Festa
James Joyce
Epifanie
Illustrate da Vittorio Giacopini, testi di Carlo Avolio, Vittorio Giacopini ed Enrico Terrinoni
pp. 256, € 23
Racconti edizioni, Roma 2021
Il volume Epifanie, un lavoro a sei mani sul pensiero e stile narrativo di James Joyce, è una vera chicca. La copertina ammaliante, la grammatura e il colore della carta, l’impaginazione, l’alternarsi di testo e immagine sono dettagli che saranno apprezzati dai bibliografi e non solo. I testi di Carlo Avolio, Enrico Terrinoni e Vittorio Giacopini fanno da cornice letteraria a due lavori di Joyce – Epifanie e Rubrica di Trieste – offrendo al contempo una panoramica a tutto tondo sull’autore. Epifanie, scritte tra il 1900 e 1904, è una raccolta di brevi prose che può essere paragonata a una pietra miliare in quei, così definiti da Avolio, “primissimi anni di apprendistato letterario.” In Epifanie lo scrittore modernista ritrae “la grettezza, la falsità dei rapporti umani, l’isolamento dell’uomo d’arte anche in contesti a lui familiari, la sua fantasia al confine tra il sogno di soddisfazione e l’incubo.” La descrizione della vita quotidiana dei dublinesi dell’epoca è proposta in lingua originale con testo a fronte (la traduzione è la stessa pubblicata nel volume: James Joyce, Epiphanies/Epifanie, a cura di Carlo Avolio, pp. 106, Clinamen, Firenze, 2014). Terrinoni, esperto joyciano, esplica il concetto di epifania adottato da Joyce. L’autore irlandese era ossessionato dall’“inventare parole” ma era anche “un accorto ristrutturatore di parole, sempre abile nel dare nuovi significati a lemmi vecchi.” E il vocabolo epifania non fa eccezione. “Nelle mani di Joyce, la parola ‘epifania’ diviene altro da sé. Diviene arte. Perché questo sapeva fare l’irlandese: trasformare, transcreare. (…) Precisamente, sapeva rendere le parole ‘epifaniche.’” Terrinoni fa notare che epifania, oltre ad essere una delle parole “tra le più importanti nella sua opera”, viene manipolata e utilizzata da Joyce con intento eretico.
Rubrica di Trieste, composta tra il 1907 e il 1912 agli inizi dell’esilio autoimposto, contiene brevissime riflessioni teoriche, ricordi o peculiarità legati a persone, luoghi o momenti della sua vita. Questi abbozzi di reminiscenze e embrioni del pensiero intellettuale di Joyce non hanno un filo conduttore ma, come in una sorta di dizionario, sono appuntati in ordine alfabetico. Avolio asserisce che la “Rubrica è infatti da intendersi come un ponte tra la stesura dello Stephen Hero e il Dedalus, in alcuni casi resterà una fonte anche per certe memorabili scene di Ulisse.” Parallelamente alle puntuali e raffinate critiche letterarie di Avolio e Terrinoni, il volume è impreziosito dalle intriganti raffigurazioni di Giacopini, che definisce Joyce il “maestro dello sguardo.” L’inserimento delle illustrazioni permette una doppia lettura del volume: testo e immagine. I disegni di Giacopini evocano lo stile narrativo di Joyce: sono caratterizzati dalla ricchezza di particolari e dettagli, rappresentano con tagliente precisione le parole, le tensioni e le angosce dell’autore, “acrobata del linguaggio” dall’animo irrequieto, ribelle e anticonformista. Il “tratto caustico” delle illustrazioni, quando inserite nella narrazione joyciana, sembrano fare da didascalia al testo e, azzardando oltre, potrebbero funzionare come singola narrazione. Contenuto e aspetto esteriore rendono questo volume accattivante, oltre a togliere efficacia al detto don’t judge a book by its cover.
maria.festa@unito.it
M. Festa è dottoranda in Letterature Anglofone all’università di Torino