In bilico fra l’eroismo degli esauriti e una letizia insolita
di Domenico Calcaterra
Che l’ingombrante figura di Gabriele D’Annunzio fosse da aggredire non fu soltanto parola d’ordine a demolire la scabrosa eredità della sua incontestabile influenza dalla quale, in fretta, per i più, prendere le distanze, magari volgendo l’imitazione in chiave ironica (come accadde ai crepuscolari). L’imperativo, incendiario, era metabolizzare quel cattivo esempio che elevava la vita ad arte, che faceva di essa teatro, dell’autore (e dell’uomo) personaggio. Contro l’innegabile presa della funzione D’Annunzio si dovette insomma correre ai ripari da più parti, e già nell’ora del manifestarsi della più alta realizzazione del suo ideale di arte, vita e azione che fu l’impresa fiumana. A ricordarcelo ora l’infuocato pamphlet che un giovanissimo Dino Terra, appena sedicenne, rivolse contro il vate d’Italia, intitolato D’Annunzio e il caso Fiume, edito nel 1919 e oggi riproposto al pubblico da Marsilio, grazie a una copia sfuggita alla distruzione cui l’autore aveva destinato questo suo acceso libretto d’esordio.
Dino Terra, che poco o niente dice ai lettori di oggi, fu invece tra i protagonisti più originali di quell’“underground giovanile” – estremista ed eversivo –, che animò la Roma fascista tra gli anni venti e trenta: narratore, poeta, drammaturgo, critico, giornalista, pittore, la sua opera fu improntata a un realismo (per nulla naturalista) a trazione primieramente gnoseologica (“Io scrivo per capire”). L’humus è quello del milieu novecentista e di riviste come “’900” e “L’Imperio” (e altre testate di certo trasversali del sovversivismo italiano), i cui protagonisti furono oggetto, come sostiene Paolo Buchignani nell’introduzione, di una colpevole rimozione, giacché una più obiettiva considerazione della vicenda intellettuale di ciascuno di essi avrebbe comportato una messa in crisi di una vulgata critica oramai consolidata.
Ma torniamo all’opuscolo polemico che si fa carico di offrire un idiosincratico ritratto del D’Annunzio uomo, poeta ed eroe dell’impresa fiumana. Articolato in tre parti – Il poeta, L’eroe, Il caso di Fiume –, si tratta, per usare il medesimo lessico di Terra, dell’argomentato e stringente j’accuse di un “piccolo uomo”, nel tentativo di tirar giù dal piedistallo un Dio (“accuso ed accuso a fronte aperta”). Gli nega la personalità di poeta sincero e autentico, riducendolo a imitatore e rimaneggiatore di spunti altrui, che indugia in cerebrali esercitazioni formali; lo accusa di aver mal inteso e recepito a suo uso e consumo il superomismo nietzschiano, la sua vulgata infatti puzza di misticismo, svuotato com’è (scrive Terra) di ogni carica etica e sociale; e per dimostrare ciò ricorre alle parole dello stesso Nietzsche: “L’evoluzione generale dell’arte nel senso dell’istrionismo è una manifestazione di degenerazione fisiologica, più esattamente una forma dello isterismo” (Contributo alla fisiologia dell’arte). Risolve perciò la personalità del poeta delle Laudi in degenerata malattia, in conclamata patologia, il cui sintomo più lampante consisterebbe nel culto sovrano della parola, per mezzo della quale (ventriloquo ancora di Nietzsche) “la pagina prende vita a spese del tutto, il tutto non è più un tutto”. In questa “assenza del tutto”. Terra coglie la cifra sintomatica che rende artificiale (per quanto elegantissimo) il suo dettato poetico. E così conclude lapidario: “La sua affettazione di stile non è altro che una impotenza di stile”.
Terra spiega il largo consenso del vate attribuendolo al fatto che egli riesca a suscitare entusiasmi in coloro che, come il poeta, sono poveri di spirito, nevrastenici, psicopatici… Epperò, nel tratteggiare i segni del male di D’Annunzio (e dei dannunziani tutti), il giovane Terra omette di rilevare l’effettiva proporzione di quei segni che furono (se possibile ancor più preoccupanti) spia di una più dilagante fragilità sociale: ossia la malattia di tutt’un popolo, di un’intera nazione, già apertamente predisposta ad acclamare l’uomo della provvidenza. Per il medesimo vuoto morale che lo riconnetta con il bene collettivo, il suo ardimento, che trova massima compiutezza nel pieno disprezzo della vita, gli appare la negazione stessa dell’eroismo: come il Foscolo dei Sepolcri, il giovane polemista chiama in causa l’Ettore omerico, vero modello di eroismo, il cui sacrificio è sempre in relazione alla società cui appartiene. Mentre quello dannunziano finisce per essere “l’eroismo degli esauriti, di coloro che dalla vita non si aspettano più alcuna gioia e che anelano allo annichilimento di sé stessi”. Esatto contraltare del quasi agiografico Chez D’Annunzio (1925) di Marcel Boulenger, il ritratto di Dino Terra che individua nella personalità del pescarese il sommo corruttore, sembra quasi suggerire l’implicita conclusione che se non ci fosse stato l’astro di D’Annunzio in quegli anni, in Italia, gli italiani stessi sarebbero stati nazione di altra tempra; il fascismo, per assurdo, non avrebbe attecchito. A proposito del “conquistatore in sedicesimo” (così ancora Terra), è da chiedersi: fu davvero tutta moneta falsa, ambizioso opportunismo frutto di un istrione?
Fu, insomma, tutta e sola “masturbazione mentale”, calcolata insincerità (nel vuoto d’idee) la proiezione eroica dannunziana? Seppur entrambi – Boulenger e Terra – colsero, nei loro antitetici ritratti in presa diretta, aspetti veritieri della sua personalità, ciò che mancò – al primo per eccesso di parzialità, al secondo per furore idiosincratico –, fu una visione più distesa e distaccata del fenomeno D’Annunzio. Prendiamo, per esempio, il caso dell’impresa di Fiume. Se l’amico Boulenger, intessendo un’appassionata difesa del Comandante all’indomani della caduta della città, ne rievoca il mistico carisma ed esalta i tratti d’originalità contenuti nella Carta del Carnaro, Terra al contrario vede il giustissimo fine della rivendicazione fiumana ridotta a “bizza personale”, un mezzo nelle mani del poeta per “tutto osare”: un “atto di pretorianismo” insomma, la folle rivoluzione suicida di un sovversivo despota che non integra ma disgrega, peraltro letta in antitesi stridente con l’impresa garibaldina, il cui intento fu unificatore (tuttavia erano forse ancora troppo acerbi i tempi per una lettura più disincantata dell’impresa garibaldina e del Risorgimento tutto).
Primonovecentesco fin nelle midolla Terra, con i piedi ancora piantati nell’Ottocento Boulenger, certo i loro contrapposti giudizi sulla figura del Vate sono da leggersi oggi come lo specchio della differente ricezione del mito dannunziano da parte di due generazioni per certi versi distanti (entro una conflittualità che mette a confronto la generazione dei padri con quella dei figli). Non meno eloquente la vicenda se ci si sofferma sulla questione del pionierismo dannunziano riguardo all’epopea aviatoria: Boulenger ne contorna ancora una volta l’alone mistico, la liturgia connessa alle imprese di volo e all’ardimento degli aviatori incalzati dal loro Comandante; Terra, pur riconoscendo l’effettiva modernità di D’Annunzio, pienamente dentro a quella svolta paradigmatica nella storia dell’uomo, rinuncia tuttavia, per partito preso sembrerebbe, a riconoscere come proprio nelle imprese aviatorie del Comandante possa intravedersi una particolare estetica e una conseguente etica che egli invece nega tout court. Al netto degli accenti retorici le sue parole sembrano configurare un’etica, una divisa di atteggiamenti, che ha a che fare con la “letizia insolita” che per D’Annunzio non può non accompagnare l’azione (penso al discorso dopo il volo su Vienna), entro quello spazio di unica e vitale bellezza che reca con sé – “tra ala e ala, là dove tutto è purità e speranza” – l’attaccamento ai valori di sempre (amore, morte, gloria, Patria). Vitalità che è l’esatto opposto dell’altrettanto retorico, ma oltremodo funereo monumentalismo dal quale, per dirne una, non riesce a liberarsi il Mussolini di Parlo con Bruno (1942), un libro che avrebbe dovuto parlare la lingua del privato, dedicato com’è al figlio, temerario aviatore della squadriglia dei “Sorci verdi”, scomparso precocemente all’età di ventitré anni in un incidente aereo. “Fascista nato e vissuto”, Bruno Mussolini, nel ricordo del padre Benito, è ritratto come alto esempio di virtù italiche e fasciste: intrepido, schivo, deciso, compreso nell’incombere di un destino, protagonista di un clima di grandi imprese e ardimento… A “parlare” con Bruno, non è un genitore addolorato per la perdita del figlio, ma il padre dell’Italia fascista, per cui anche il dolore, la cronaca familiare, sono asserviti all’imperativo di edificare la grande mitologia del regime. Quel Mussolini che nella prefazione di un libro celebrativo coevo, Mussolini aviatore (1942) di Guido Mattioli, viene proprio descritto, a segnare la presunta distanza da taluni padri del Risorgimento (da Alfieri a Mazzini), “padre che i rampolli affiancano già la mente ed i muscoli”. E il cerchio qui si chiude, senza bisogno di altro aggiungere.
Ma torniamo a D’Annunzio e all’avventura del volo come più autentica adesione del poeta alla modernità. La dimensione del volo per lui si traduce in uno spazio entro il quale dare corso a un eroismo per così dire naturale, esperienza di liberazione dai vincoli dell’agire quotidiano; l’equivalente, nella vita, di ciò che in pittura accade, negli stessi anni, in certe opere del padre del suprematismo Kazimir Severinovičh Malevič, nelle quali il rapporto tra spazio, tempo e forme è stravolto in nome di una sensibile risemantizzazione che tenda a cogliere l’essenziale, basata su un nuovo fondamentale principio di libertà. E c’è un quadro dell’artista russo, L’aviatore (datato 1914), che mi pare possa assumersi a icona figurale della nuova disposizione a cui diede accesso la rivoluzione verticale: l’aviatore, dal corpo d’acciaio, in bombetta, e con un asso di picche nella mano destra (a suggerire lo scacco portato alla visione consueta del reale), si staglia su uno sfondo policromo di irregolari forme geometriche che rimandano a parti meccaniche o a frammenti di un velivolo, come il bianco profilo alare che attraversa il busto dell’aviatore, simile a un candido pesce guizzante. A dire di un elevarsi che si compiace di un salutare regredire. Regressione, se si vuole, a un mondo liberato e senza regole, com’è quello dell’infanzia. Non a caso Daniele Del Giudice, lo scrittore italiano che più di tutti nel secondo Novecento ha saputo far rivivere l’intatta bellezza e la carica profondamente etica dell’esperienza del volo, nel suo capolavoro, Staccando l’ombra da terra (1994), finisce per pensare ai piloti come a “bambini adulti, bambini nascosti”. Che poi la regressione al mondo dell’infanzia sia la cifra comune a tanto Novecento è altro discorso.
domenico.calcaterra@gmail.com
D. Calcaterra è insegnante e saggista
I libri
Dino Terra, D’Annunzio e il caso Fiume, a cura di Paolo Buchignani, pp. 215, €13, Marsilio, Venezia 2019
Marcel Boulenger, Chez D’Annunzio, a cura di Alex Pietrogiacomi, prefaz. di Giordano Bruno Guerri, pp. 150, € 14, Odoya, Bologna 2018
Fortunato Minniti, La rivoluzione verticale. Una storia culturale del volo nel primo Novecento, pp. VIII-279, € 32, Donzelli, Roma 2018
Gabriele D’Annunzio, Parole di G. D’Annunzio dopo il volo su Vienna, in Scritti giornalistici 1889-1938, Vol. II, pp. 757-762, € 93, Mondadori, Milano 2009
Daniele Del Giudice, Staccando l’ombra da terra, pp. 122, € 12, Einaudi, Torino 1994