Per il ciclo d’interviste agli editori, oggi L’Indice online ha intervistato Andrea Gentile, direttore editoriale de Il Saggiatore.
La vostra storia ha inizio alla fine degli anni Cinquanta. Come si costruisce, nel corso dei decenni e dei rivolgimenti socio-politici, un’identità editoriale forte come la vostra?
L’identità della casa editrice ha avuto molti risvolti nel corso dei decenni, per varie ragioni storiche. L’identità – che per sua natura è fluida – è sempre stata qui più che fluida, anche piena di rovesciamenti (basti pensare a un periodo di acquisizione da parte di Mondadori, che rese la casa editrice prevalentemente accademica). La costruzione identitaria degli ultimi anni nasce da questo presupposto: partire dal nucleo dell’antica identità e rinnovarla, cercando di rimanere fedeli a un’idea di editoria che è, allo stesso tempo, antica e contemporanea.
Un catalogo è una grande risorsa, ma non solo va valorizzato: va costruito quello del futuro. Il catalogo stesso è un organismo vivente, di cui ogni aggiunta modifica la traiettoria evolutiva. Non solo come talvolta si è detto, il catalogo è un macrotesto, composto da tutti i singoli testi che vengono pubblicati, ma il catalogo è composto da ogni atto della casa editrice: le stories di Instagram – per quanto siano endemicamente dimenticabili – sono parte stessa di un catalogo. Ogni singolo atto che la casa editrice emana – da un libro pubblicato a un’email inviata dall’interno all’invito a una festa di Natale, alla disposizione delle scrivanie – è già catalogo: il catalogo è sempre il futuro.
Quanti titoli stampate, in media, all’anno? C’è un equilibrio o un bilanciamento nei vari settori delle vostre pubblicazioni?
La produzione annuale si aggira sui 110 titoli, di cui una parte è rappresentata dai ripescaggi dal nostro catalogo. Il resto è composto, secondo un bilanciamento editoriale, commerciale e alchemico, da autori contemporanei. Al Saggiatore non esistono le collane: esiste solo la serie principale, «La Cultura», nella quale confluiscono tutti i titoli.
Siete gli editori italiani di Oates, Didion, Gombrowicz. Ma anche di autori contemporanei importantissimi come Geoff Dyer, o di Olivia Laing. Un catalogo di narrativa, anche se qui la definizione è usata a maglie larghe, che farebbe invidia a chiunque. Quanto conta essere i primi a trovare una nuova voce, e quanto è importante invece la riscoperta di un autore già pubblicato ma poi dimenticato?
L’importante, per noi, è la qualità di queste voci, la loro unicità, perché, come dicevo, ogni autore va ad aggiungere la propria voce alla sinfonia delicata e in perenne mutamento che è il catalogo della casa editrice. Quando decidiamo di acquisire un autore – e spesso ragioniamo proprio così: di autori, e non di singoli titoli –, lo facciamo perché crediamo che quella voce sia la nota perfetta per proseguire il canto.
È questo un criterio industriale? Anche. Si tratta di considerare che il catalogo è una visione anche poetica, e che questa visione poetica porterà dei risultati economici. Dal 2014 il fatturato è quasi raddoppiato, proprio sulla base di questa possibilità. Naturalmente non è l’unica ricetta possibile. Io stesso, se in futuro lavorassi per un’altra casa editrice, non è affatto detto che imposterei la strategia nella stessa maniera. Abbatterei tutte le collane? Al contrario, magari è il caso di aprirne di nuove. Dipende da mille fattori, dal contesto, dal marchio: un professionista, se ha solo una ricetta da replicare per sempre, non è un professionista, è al massimo un teorico. Ma questo è un lavoro anche molto pratico, e questo è parte della sua bellezza.
Qual è il long-seller a cui siete più affezionati e, se c’è, un libro poco conosciuto nel vostro catalogo che vorreste vendere di più?
I long-seller sono diversi, e si sono affastellati nel corso degli anni. Tuttavia se ogni titolo è parte di un tutto, l’importante è il tutto. Il che, naturalmente, non significa non amare i libri che si pubblicano, piuttosto il contrario: non considerarli biglietti della lotteria.
Come sta la saggistica italiana, oggi? E i lettori italiani di saggistica straniera?
In linea generale, il libro ha sempre più una funzione di esperienza e di conoscenza. Per questo c’è un grande futuro per la saggistica; resterà di nicchia, e sarà sempre più profonda.
Da chi è composto, insomma, il parco lettori di una casa editrice il cui obiettivo è portare in Italia libri che spaziano dal futuro delle realtà virtuali agli asset dell’economia nel calcio?
Il nostro lettore ideale, se così si può dire, ha molto modificato la propria fisionomia nel corso degli anni. Oggi, il lettore del Saggiatore, a differenza del passato, ha tra i 25 e i 40 anni, vive soprattutto in città e – nella tempesta di sollecitazioni culturali dell’oggi – cerca dal libro non solo una qualità eccellente ma anche un momento di verità. Abbiamo operato una radicale trasformazione dell’identità del marchio, senza rompere col passato.
Tra i vostri autori italiani, ci sono Davide Orecchio, appena uscito in libreria con Il regno dei fossili, e Filippo Tuena: due dei maggiori artefici di un certo tipo di narrativa ibridata che non si accontenta di raccontare una storia seguendo un intreccio di finzione, scritture che ammiccano alla non-fiction e su cui, in questi anni, si sta molto dibattendo.
È vero, si tratta di scritture ibride, caratteristica di molti libri pubblicati da questa casa editrice. Ma non vengono pubblicati per questo: vengono pubblicati in quanto sono testi vivi, esperienze letterarie in senso ampio. Che cos’è un esperienza? Rinnovamento di se stessi. Un testo stesso può essere vivo, o quantomeno morente: più che identificare delle categorie – con cui pure dobbiamo naturalmente confrontarci in termini tecnici, per esempio con i librai – ambiamo a pubblicare testi vivi, che fanno esperienze dentro loro stessi. E dunque, possono poi essere esperienze per i lettori.
Negli ultimi mesi sono usciti due saggi inconsueti, quello dello Stato Sociale e L’età della tigre di Carozzi, che per la prima volta ragiona da una prospettiva analitica sul fenomeno della trap. Un ancoraggio ancora più saldo alla contemporaneità?
La contemporaneità ci ha sempre interessato, quasi mai l’attualità. Si tratta di capire cosa è l’uno e cosa è l’altro. Il libro di Ivan Carozzi non è un libro sulla trap, anche se può essere letto come un libro sulla trap: è piuttosto il libro di uno scrittore che vive un’esperienza di spaesamento. Il romanzo dello Stato Sociale è più classico nell’impianto, e al tempo stesso è indagine del contemporaneo.
Una domanda indiscreta: come mai, secondo voi, alcuni vostri titoli che pure lo meriterebbero non sono ancora così presenti nei programmi universitari?
Non abbiamo mai pubblicato libri mirando a entrare nei programmi universitari. Quando capita, al tempo stesso, non possiamo che esserne felici.
Quali sono le uscite del 2020 cui siete già da ora più affezionati?
Tutti.