di Claudio Panella
Alberto Prunetti, scrittore e traduttore, ha instaurato negli ultimi anni una collaborazione forte con la casa editrice Alegre, fondata a Roma nel 2003 da Salvatore Cannavò, Giulio Calella e Checchino Antonini, i quali vollero intitolarla a quel Porto Alegre che allora rinviava al desiderio di un mondo migliore. Alegre vive oggi dell’apporto di molte menti redazionali come quelle di Pietro De Vivo, Wu Ming 1, Tommaso De Lorenzis, e di alcuni curatori di collana d’eccezione com’è il caso di Prunetti con la collana Working Class..
Vi sono state collaborazioni precedenti o per te il rapporto con Alegre ha inizio nel 2014 per la nuova edizione del tuo Amianto?
Sono entrato in contatto con Alegre ai tempi della rivista “Letteraria” di Stefano Tassinari. Conoscevo da lettore il loro lavoro. Ma per me tutto inizia con la riedizione di Amianto. Una storia operaia (titolo che era uscito in prima battuta nel 2012 per AgenziaX e che tra l’altro sta avendo delle traduzioni estere, a partire dal francese per arrivare al castigliano e al catalano), a cui segue nel 2015 la pubblicazione di PCSP (Piccola Controstoria Popolare), una riscrittura di Potassa, il mio esordio, che avevo steso in anni difficili: disoccupazione in Italia (alternata a lavori nella ristorazione come pizzaiolo) e pulizia di cessi in Inghilterra. In quel periodo non avrei mai pensato di lavorare un giorno nell’editoria o in qualsiasi ambito culturale. Avevo però una storia da raccontare e volevo scriverla, non per pubblicarla ma per condividerla con i miei amici. Fu un’amica a passarla a un’associazione culturale che mi propose di stamparla. Ne fecero mille copie senza distribuzione che andarono esaurite in pochi mesi. Poi fu ristampata da Stampa Alternativa. Con loro, dopo aver imparato l’inglese nelle latrine del Regno Unito, ho iniziato a fare scouting e traduzione di autori in lingua inglese. È stato il mio primo lavoro nell’editoria. Cosa che continuo a fare anche adesso, per altri editori.
Potassa apparve nella collana “Quinto Tipo” diretta da Wu Ming 1, dedicata a oggetti narrativi ibridi e non-identificati, e che tra l’altro faceva una campagna abbonamenti specifica chiedendo una certa cifra per avere, man mano che uscivano, quattro titoli a un prezzo più conveniente di quello in libreria.
Sì, Potassa era un ibrido, perché la mia vita non era regolare e non potevo scrivere altrimenti. Un po’ un saggio storico, un po’ un lavoro militante, il tutto scritto in forma narrativa perché sono una macchina che racconta storie. La riedizione di Alegre nella collana di Wu Ming 1 ha permesso di limare certe imperfezioni della prima edizione. Quintotipo era il contenitore perfetto per quel testo.
Essendo tu traduttore, hai collaborato con Alegre anche in occasione della traduzione di un testo importante di Angela Davis, Donne, razza e classe, uscito nella “Collana Feminist”, che annovera per ora pochi titoli. Collabori ad altre collane?
Sì, tradurre il saggio di Angela Davis è stato bellissimo, è una pietra miliare degli studi che incrociano questioni di genere con classe ed etnicità (ed è stato molto bello tradurlo a quattro mani con Marie Moise). In passato avevo già tradotto un saggio per Alegre con Wu Ming 1. Adesso sto per tradurre dallo spagnolo una sorta di storia popolare del calcio argentino che uscirà a primavera. Mi guadagno il pane come traduttore da anni ormai e per tirare avanti, considerando le paghe molto basse rispetto ad altri paesi europei come la Francia, bisogna lavorare su più collane e con editori distinti, sperando di incastrare i pezzi del mosaico, di mese in mese. È un lavoro spesso noioso, anche se sono molto contento del fatto che il mio lavoro di traduttore non sia scollegato dai miei interessi e dalla mia opera come autore. Di fatto, traduco in genere quei saggi che come lettore vorrei poter leggere. E questo rende più piacevole un lavoro che è fatto di una routine lunga, con molte ore sedentarie trascorse davanti a uno schermo. (Peraltro per tirare avanti nell’economia delle energie devo alternare al lavoro editoriale il lavoro manuale, perlopiù in ambito agricolo: oltre a fare un po’ di agricoltura di autosussistenza, il lavoro manuale si integra con quello intellettuale, mi permette di concentrarmi, di pensare, di trovare storie e fonti di ispirazione a cui abbeverarmi).
Dallo scorso anno Alegre pubblica anche la rivista “Jacobin Italia” di cui sei uno dei redattori. Ce ne puoi parlare?
Si tratta di una nuova rivista, cartacea e on line, che si ispira alla Jacobin Mag statunitense e guarda con interesse critico alla nuova sensibilità del socialismo democratico di oltreoceano. La redazione è composita e tiene conto anche del dibattito del pensiero radicale europeo, dell’ecologia e del femminismo intersezionale. Esce come trimestrale cartaceo, il che è una grossa sfida di questi tempi, quando le riviste cartacee tendono a chiudere. Abbiamo comunque un’ottima base di abbonamenti e l’edizione on line, che è un magazine con contributi originali in italiano, viene seguito con interesse da molti lettori. Per Alegre è stato un bel rischio ma per ora i riscontri sono molto positivi.
Dal 2018 curi per Alegre la collana intitolata “Working Class”. L’avete lanciata con un vero e proprio manifesto: come hai concepito questo progetto?
Dopo aver pubblicato Amianto, mi sono reso conto che avevo lanciato un sasso nello stagno. Si era alzata una bella onda, ma bisognava spingere anche coi remi per raccontare un mondo che non viene granché raccontato. La classe lavoratrice è spesso oggetto di racconti fatti dall’esterno, che la demonizzano da un lato oppure dall’altro la celebrano con uno sguardo paternalista, che coglie l’alienazione o il vittimismo ma non la gioia della vita operaia. La particolarità di Amianto è che era un libro scritto da chi nella classe operaia ci era nato e cresciuto. Così ho deciso di continuare il progetto scrivendo una trilogia operaia. All’inizio non pensavo neanche a una collana di scritture operaie, ma ho cominciato a scrivere degli articoli su Giap, il blog dei Wu Ming, per mettere a sistema alcune considerazioni che avevo sviluppato nel corso delle presentazioni di Amianto. Raccontavo del punto di vista operaio, dell’uso dell’umorismo, dell’importanza di smontare l’idea del mondo operaio raccontato dall’esterno. Volevo che questi appunti diventassero una bussola verso il secondo tomo della trilogia working class, che poi è uscito per Laterza col titolo di 108 metri. The new working class hero (al momento è in corso di traduzione verso la Spagna e la Grecia, mentre io sto scrivendo il terzo volume). All’uscita del primo articolo sulle scritture operaie, sono stati i compagni di Alegre a chiamarmi per telefono, proponendomi di curare una collana di scritture sul lavoro. Va detto che su questi temi Alegre era già sensibile da tempo, anche al di là del mio attivismo personale. Prima di Amianto, avevano pubblicato l’antologia di scritture Lavoro vivo e dopo Amianto avevano già pubblicato Meccanoscritto, l’opera del collettivo operaio Metalmente. Insomma, ho accettato la proposta e ho scritto quel testo programmatico.
Il primo titolo della collana è Ruggine, meccanica e libertà di Valerio Monteventi un titolo perfetto per concretizzare l’intento espresso nel manifesto della collana di “andare oltre il racconto testimoniale e vittimario. Per cominciare a costruire mondi e immaginari, ripartendo da due concetti: raccontare il conflitto e la solidarietà”.
Il romanzo di Valerio Monteventi, nello spartiacque della crisi del movimento operaio degli anni Ottanta, racconta il momento di distacco, in fabbrica, tra l’esperienza della classe operaia orgogliosa del mestiere e la fase successiva, quella in cui si cerca di fare dell’operaio un operatore individualizzato, possibilmente separato dagli interessi dei propri compagni di lavoro. Nel mezzo c’è la biografia dell’autore, la sua esperienza politica, la detenzione, il lavoro sociale in carcere che lo porta a insegnare la meccanica ai detenuti.
Il secondo titolo della collana è Figlia di una vestaglia blu di Simona Baldanzi, un testo che aveva avuto una prima edizione oramai esaurita e che, un po’ come “Amianto”, è dedicato al confronto tra una generazione di figli che hanno potuto studiare e i loro genitori operai,
È un libro che ho molto amato e che purtroppo era fuori catalogo da tempo. Ho lottato per renderlo di nuovo disponibile ai lettori: con Alegre c’erano dubbi, trattandosi di una riedizione, ma penso che il libro sia stato accolto con interesse, sia dai lettori che da chi lo sta recensendo. Quello di Baldanzi è uno sguardo sulla working class femminile, sulle mamme della classe operaia che affiancano il lavoro in fabbrica a quello di cura e di riproduzione sociale. Rispetto al mio Amianto, che raccontava il rapporto tra padre operaio e figlio, Figlia di una vestaglia blu è l’altra faccia di una stessa medaglia: sono molto orgoglioso di avere il libro di Simona Baldanzi nella collana.
Alegre promuove anche un festival di letteratura sociale particolarmente interessante, la cui quarta edizione si è svolta a maggio, con la presentazione della tua collana. Ce ne puoi parlare?
È un progetto in espansione e ha cambiato nome nel tempo, rimanendo però saldo il sottotitolo di “festival di letteratura sociale”. Nasce a Roma, nei locali del centro sociale Communia, su spinta di Alegre, e si diffonde negli anni a Bologna, Firenze e Milano, in sinergia con alcuni centri sociali di queste città. Ha contribuito a diffondere consapevolezza critica, letture, diffusione di libri e momenti di convivialità attorno alle tematiche del femminismo, dell’ecologia radicale, dell’analisi del presente e appunto della narrativa working class. Speriamo che continui il suo percorso di irradiazione nei prossimi anni.
Vi saranno altri titoli che appariranno nei prossimi mesi nella tua collana?
L’idea è quella di far uscire un titolo o due al massimo all’anno. Ci vuole tempo, perché le forze non sono troppe, i progetti si sovrappongono e non è facile trovare titoli convincenti. Arrivano manoscritti. L’idea è quella di rivolgersi a lavoratori-scrittori e non a scrittori di professione. Quindi si ha a che fare con persone che scrivono dopo aver lavorato duramente nelle occupazioni precarie dei nostri giorni. E che sono spesso alle prime armi, pur avendo storie notevoli sulle proprie spalle. Ma il punto non è avere solo buone storie, bisogna anche saperle raccontare, e saperle raccontare bene. Insomma, ci vuole tempo. Capita anche che arrivino proposte che non hanno nulla a che vedere con l’idea della collana, e un po’ mi spiace, perché prima di proporci un manoscritto bisognerebbe che almeno chi l’ha scritto abbia letto gli articoli che fanno da base al progetto e le uscite già mandate in stampa. Altre volte arrivano testi che hanno stoffa, ma tendono a essere ripiegati su se stessi, e anche questa è in fondo una caratteristica dei nostri tempi. Il lavoratore è isolato, atomizzato, spinto alla competizione coi suoi pari, e il punto di vista di tanti manoscritti che arrivano è quasi ombelicale: mancano i compagni di lavoro e la narrazione è proiettata ipertroficamente nell’elencazione delle proprie sfighe personali. La collana working class nasce proprio per ovviare alle lacune di certa scrittura del precariato: basta sfighe personali, raccontiamo anche la solidarietà tra lavoratori, l’irriverenza verso i capi, il conflitto sociale; facciamo vedere le reti sociali con cui a lavoro ci si oppone allo sfruttamento. Cosa che han fatto magistralmente gli operai del collettivo Metalmente.
Detto questo, per il prossimo titolo sto valutando l’ipotesi di una traduzione dall’inglese. In Inghilterra si stanno pubblicando ottimi titoli di autori con un background working class. Spero per una nuova uscita working class nella prossima primavera.