Se ti senti in colpa, stai ricordando l’amore
intervista di Camilla Valletti e Chiara D’Ippolito
In occasione dell’uscita di In tutto c’è stata bellezza, edito da Guanda, Manuel Vilas è stato ospite al Circolo dei Lettori martedì 19 marzo, nel ciclo d’incontri d’avvicinamento al Salone del Libro 2019.
Una delle frasi centrali del suo libro è «Non diciamo mai tutta la verità, perché se la dicessimo manderemmo in pezzi l’universo, che funziona attraverso ciò che è ragionevole, ciò che è sopportabile». Qual è, in “In tutto c’è stata bellezza”, il ruolo della verità e della ricerca della verità? Si può dire che il suo libro sia nato dalla necessità di trovare la verità su se stesso e sulla sua identità?
É un libro che cerca la verità della vita, di quello che è successo nella mia vita. É un libro autobiografico. Un’ossessione del narratore è la ricerca della verità. Quindi per trovare la verità ha bisogno di raccontare storie, narrare. Mi sono reso conto che non si può raccontare tutto. Gli esseri umani non possono dire tutto quanto è successo loro, devono fare una sorta di selezione perché se tu racconti al tuo migliore amico, al tuo compagno, a tuo marito, a tua moglie, ai tuoi figli, a tuo padre, a tua madre, tutto quanto ti è successo, puoi rompere questa relazione. Nemmeno a noi stessi siamo capaci di dire tutto.
Il passato, la memoria, la necessità di ricordare sono, per lei, imprescindibili. Che ruolo deve avere il passato nel presente di una persona?
Il ruolo del passato è determinante. Soprattutto quando compi 50 anni, a partire dai 50 anni, prima no, per una questione matematica. Quando appare il 5 nella tua vita, hai più passato che futuro, e quindi il passato si converte in una ossessione.
Uno dei grandi temi del suo romanzo è quello della morte, in particolare quella dei suoi genitori. Lei ha detto che la poetica del suo libro è “vivir es ver morir”? Che cosa significa? Qual è il ruolo della morte nella vita di ognuno di noi?
Sì, vivere significa veder morire perché – ripeto – tutti noi che abbiamo almeno 50 anni, abbiamo visto morire. Vivere è veder morire i tuoi genitori, gli amici, persone varie. È un’esperienza importantissima quando ti rendi conto che le persone che ami se ne vanno. E muore anche la tua vita. La morte è un mistero, e oltretutto la morte è una cosa che succede ai vivi, i morti non sanno di essere morti. Lo dice la Bibbia, nell’Ecclesiaste: i morti stanno riposando. La morte è il nome che noi vivi diamo a un fenomeno che è la scomparsa delle persone che sono state importanti per noi. La morte è un mistero, perché in realtà noi continuiamo a parlare con i nostri morti. La morte è come una specie di gigantesco wi-fi, una rete senza fili. Già prima di Internet esisteva una rete senza fili di comunicazione tra i vivi e morti, tutti intrattengono delle conversazioni con i propri morti. Costantemente, da quando ti svegli al mattino, ti ricordi di tuo padre, di tuo nonno… e continui a parlare con i morti. É un modo per non dire addio.
Che cosa significa, per lei, essere figlio? Che tipo di amore è quello che si prova verso i propri genitori? Che cosa significa, invece, essere padre? La relazione che si ha con i propri figli tende a riprodurre il rapporto che si è avuto con i genitori?
Anche se uno pensa che non riprodurrà quello che credeva un errore, finirà per ripeterlo, identico. È l’ordine naturale delle cose. Una maledizione. L’imitazione di ciò che hai visto, e che finisci per fare ai tuoi figli.
Perché ha scritto un romanzo confessionale? Lei parla senza filtri al suo lettore, quasi cercasse un’assoluzione rispetto a quelle che lei reputa le sue mancanze, di padre, di casalingo, di uomo pratico in generale. Qual è il suo rapporto con la colpa e con il rimorso?
In natura la colpa non esiste, gli animali non si sentono colpevoli. La colpa è una costruzione della civiltà, e in più ha un ruolo importante nella religione cattolica. Nel romanzo dico che la colpa è una forma di memoria. Se ti senti in colpa per qualcosa, stai ricordando qualcosa. La colpa è un modo di ricordare. Volevo quindi vedere la colpa come una forma di memoria. La colpa è un sentimento triste, perché non ti lascia vivere, non ti permette di andare verso il futuro. Però tutti si sentono in colpa per qualcosa. Il semplice fatto di essere vivi significa incidere sulla gente intorno a te: la tua vita crea danno ad altre vite. Io non ho mai incontrato nessun essere umano che non abbia fatto del male a qualcuno. Persino Gesù Cristo fece del male agli apostoli. Sembra uno scherzo, ma la vita di qualunque essere umano consiste nel fare del male a chi sta al suo fianco. Si cerca di non fare troppo male, ma è inevitabile.
Perché insiste così tanto sul tema della povertà e della ricchezza e sulla situazione della classe media e medio-bassa, non solo nella Spagna, ma anche in quella degli anni ‘50? In che modo la politica deve entrare, oggi, in un romanzo? Lei dà un’accezione negativa alla “politica”, ma il suo è anche un romanzo politico, sociologico.
Io provengo da un ambiente sociale medio-basso, mio padre era di una classe medio-bassa, e ho vissuto cosa significa non arrivare a fine mese: è terribile. Quindi, per me, la difesa della classe media è importante, è ciò che abbiamo costruito in tutto l’occidente. Esiste un’Internazionale della classe media, c’è in Francia, in Spagna, in Italia, in Portogallo. Dappertutto abbiamo costruito una classe media che è, semplicemente, un momento di evoluzione della Storia della gente che non ha mai avuto nulla. Adesso, ha qualcosa: una casa, un lavoro accettabile, cure mediche, può accedere alla conoscenza, alla cultura. Questo per me è molto importante perché, prima, non esisteva. Per esempio, mio padre non è andato al liceo, perché a 12 anni ha dovuto cominciare a lavorare. Lui non ha studiato, mentre io ho potuto studiare. Questo ha un grande valore per me, perciò mi crea molto disagio che i politici giochino con quella che io chiamo la “prosperità della classe media”, cioè la possibilità che la classe media abbia una vita dignitosa dal punto di vista materiale. Questo significa avere un buon lavoro, una casa, la possibilità di accedere alla cultura. Una vita dignitosa. Per me è molto importante, perché è il risultato ottenuto da molte generazioni, nel corso della Storia, per arrivare a una condizione migliore. In Spagna vedo, per esempio, che larga parte della politica non si impegna nella difesa della classe media. Non so cosa cerchi e che obiettivi abbia la classe politica attuale, però non lavora per la classe media. Questo mi preoccupa, perché quando succede qualcosa di terribile, chi paga la crisi economica è la classe media. Se mio padre fosse stato un nobile, un aristocratico, io non avrei scritto questo libro.
Ci sono tante donne nel suo romanzo. Donna Letizia, Maria Callas, e poi sua madre. Donne che attribuiscono un valore assoluto alla bellezza e allo stile. Lei sembra nutrire un religioso rispetto nei confronti dell’apparenza e della bellezza. È vero?
Quando ha cominciato a invecchiare, mia madre non lo sopportava. Le sembrava che l’invecchiamento fosse una tragedia, un errore della natura. Come se la natura, con lei, stesse facendo uno sbaglio. Soffriva molto. A me sembra che invecchiare sia orribile. La vecchiaia è uguale per gli uomini e per le donne, ma politicamente è peggio per le donne. Questo è un buon argomento per il femminismo: l’invecchiamento della donna è visto molto peggio, dal punto di vista sociale, rispetto a quello dell’uomo. L’invecchiamento, tuttavia, è un’importante questione in sospeso per il mondo occidentale: non sappiamo cosa farne degli anziani, soprattutto ora che ce sono di più. Insisto, invecchiare è orribile, l’ho visto con mia madre: le scattavo una foto e si nascondeva il viso con le mani, non voleva che la fotografassi, perché non si vedeva più bella. Allora mia madre ha pensato di trovare consolazione nei medici e nelle parrucchiere: cambiava di continuo parrucchiera perché le aggiustassero meglio i capelli, e visto che camminava a fatica, andava dai medici perché le trovassero una soluzione. Semplicemente, non accettava il fatto di essere diventata vecchia. Quindi cercava conforto nella medicina, nelle acconciature, o nelle creme di bellezza. Si comprava creme di bellezza molto care e la cosa era preoccupante soprattutto perché le creme le pagavamo io e mio fratello, ed erano creme da 300 euro! Io e mio fratello andavamo in profumeria a chiedere che non le vendessero delle creme così care, visto che le pagavamo noi… Insomma, lei non accettava proprio di invecchiare, e insisteva a comprare creme carissime, anche se noi la supplicavamo di comprarsene da 50, e non da 300 euro! Ma lei si arrabbiava, e ci rimproverava: perché avrei dovuto fare dei sacrifici per voi, diceva, se non potete nemmeno permettervi di comprarmi la crema che mi piace! A quel tempo mi arrabbiavo con mia madre, ma adesso che sto diventando vecchio, anche io voglio creme da 300 euro!
A un certo punto del romanzo comincia a chiamare i protagonisti con i nomi di grandi compositori, Bach e Wagner sono i suoi genitori, i figli Vivaldi e Brahms. Come mai?
Non avevo il coraggio di usare i nomi reali, provavo disagio, paura, avevo pudore a farlo. Ma non avevo nemmeno intenzione di inventarli… se mio padre si fosse chiamato come me, non lo avrei certo chiamato Ramón o Pablo. Non sapevo cosa fare. Non riuscivo a usare il suo nome reale, perché mi si spezzava il cuore, ma nemmeno potevo inventarlo. Mi successe questo: a me piace molto la musica, così mi venne l’idea di mettere in relazione il carattere del personaggio con quello di una musica. Visto che mia madre era temperamentale e drammatica, Wagner. Visto che mio padre era un uomo sereno, Bach. Ho pensato a musicisti che avessero un’ideale affinità con il carattere del personaggio.
Lei dice a un certo punto, quasi alla fine del romanzo, “Non sempre mi hanno amato”, rispetto ai suoi genitori. Come se questa verità, che alla fine lei raggiunge dopo questo lungo excursus che è anche un viaggio dentro l’inferno del suo cuore, fosse un modo per ripartire. Non mi hanno amato sempre, non c’è questo portato di amore assoluto, quindi io posso ricominciare. L’amore, allora, anche quello genitoriale, quante forme conosce?
Può succedere questo. Se tua madre e tuo padre sono morti, non ti stanno amando, nel presente, perché non ci sono: quindi non ti hanno mai amato. Perché se l’amore non c’è nel presente, non esiste. Questo è il pensiero del narratore. Poi magari io mi sto inventando tutto, e magari non mi hanno mai amato, è un’invenzione, perché comunque loro, qui, non ci sono. E se non ci sono, quell’amore è un ricordo, quindi può benissimo essere un ricordo inventato. Però questo è terribile, ed è anche molto triste. Però, da un punto di vista razionale, è un pensiero possibile. A partire dai Greci, la letteratura che a me interessa, ha una forza catartica. Dopo la catarsi, c’è sempre un sorriso, perché quando hai dato un nome al tuo dolore, hai dato un nome a ciò che ti causa terrore, ne sei già fuori.
traduzione di Vittoria Martinetto e Chiara D’Ippolito