intervista di Jacopo Turini
In occasione dell’uscita di I Mandible, edito da 66th and 2nd, Lionel Shriver è stata ospite al Circolo dei Lettori mercoledì 20 marzo, nel ciclo d’incontri d’avvicinamento al Salone del Libro 2019.
Cento anni dopo il 1929, gli Stati Uniti vanno a capofitto in una nuova, terribile crisi economica. Una nuova valuta internazionale, il bancor, ha fatto crollare vertiginosamente il potere del dollaro; il presidente Alvarado, primo latino-americano a sedere alla Casa Bianca, ha ordinato l’azzeramento del debito pubblico e la confisca delle riserve auree dei cittadini, e i risultati sono disastrosi. Con I Mandibles Lionel Shriver costruisce implacabilmente la rapida discesa degli USA tra il 2029 e il 2047, tramite la vita quotidiana della famiglia Mandible, un tempo più che benestante e ora costretta progressivamente ad arrangiarsi in una New York sovraffollata, afosa, caotica e sempre più pericolosa.
Una dei protagonisti, Florence, porta il nome della Migrant Mother, Florence Leona Christine Thompson, la donna ritratta in foto da Dorothea Lang; un’immagine celebre, un simbolo della Grande Depressione degli anni Trenta. Qual è il suo rapporto con questa cultura, con questa identità americana?
Il parallelismo con il 1929 è intenzionale, ovviamente. L’esodo che i Mandible a un certo punto saranno costretti ad affrontare è poi lo stesso di Furore di Steinbeck; la città è ormai molto pericolosa, non ci sono risorse, la civiltà è al collasso. Non ho provato però a ricreare gli anni Trenta, su cui non mi sono documentata più di tanto, ma ho seguito gli stessi effetti della crisi, la stessa scala: la delusione, l’essere senza casa e senza cibo, totalmente dipendenti dalla beneficienza o da altre persone. Tutto ciò non è solo proprio degli anni Trenta, ma di ogni grave crisi economica. Il nome di Florence, quindi, è un omaggio voluto ma non così conscio.
Il ruolo dell’economia è centrale, tanto che, alla fine, anche il lettore più inesperto impara qualcosa, come se leggesse un saggio. Il denaro controlla le emozioni dei personaggi, perché definisce quasi totalmente l’avvenire del mondo.
Inizialmente non sapevo niente di economia, ho dovuto studiare molto. Volevo evitare quell’elemento didattico che rende la lettura pedante, quindi ho cercato di indorare la pillola, di relazionare al meglio queste parti con la narrazione vera e propria. Il libro ha due storie parallele: quella della famiglia e quella che procede sullo sfondo storico e giornalistico, e che condiziona le idee di tutti i personaggi. Parte del gioco è stata integrare queste due storie. Ad esempio, all’inizio c’è il discorso del presidente in televisione, il discorso intero. È così che i personaggi scoprono il loro destino, perché questo è il loro – il nostro – modo di usufruire delle notizie. Il lettore scopre dell’azzeramento del debito nazionale assieme ai personaggi. La famiglia è in primo piano così come la vita è in primo piano, ed è così che si fa esperienza di quello che succede. Cosa facevamo quando è stato ucciso Kennedy, o quando sono cadute le Torri Gemelle? L’enfasi è sempre su cosa stessimo facendo, e nella nostra memoria attorno ai grandi eventi c’è sempre un prima e un dopo. Questo è quello che volevo vedere: questi fatti sono nello sfondo della nostra vita, eppure la fanno reagire. Ho voluto narrare, quindi, esperienze di vita vissuta nel mezzo di un evento storico.
La distopia è forse il genere politico per eccellenza. Come dice un personaggio: “I libri ambientati nel futuro parlano sempre del presente”. In questi ultimi anni la popolarità di questo genere è in aumento, non solo in letteratura: da Black Mirror alla serie tv tratta dal Racconto dell’ancella di Margaret Atwood. Come mai, secondo lei? Che rapporti ha, inoltre, con la tecnologia?
Tra i dieci e i quindici anni leggevo solo fantascienza; ho smesso quando mi sono resa conto che parlava del presente, e sono passata alla “letteratura normale”, per così dire. Ho messo nel libro questa stessa osservazione che ho fatto da ragazzina. Le distopie mi piacciono ancora: adoro Black Mirror, ma non mi piace The Handmaid’s Tale perché non c’è mai un momento di leggerezza, è troppo deprimente. Oggi viviamo nel futuro, c’è tanta tecnologia nella quotidianità, abbiamo già un sacco di aggeggi incredibili; la fantascienza non inventa più tanto da quel punto di vista. Nel mio libro le invenzioni tecnologiche sono al minimo: l’enfasi è su poche cose, su pochi oggetti, per creare una sorta di futuro vicino e immediato. Ad esempio, ho creato il fleX, una specie di tablet che si appallottola come un fazzoletto, pensando proprio a risolvere cosa non va negli smartphone: non si piegano, sono ingombranti e lo schermo si rompe facilmente.
Il realismo dei Mandibles sta, oltre che nei dettagli e negli oggetti, anche nell’invenzione di uno slang, nella progressione linguistica. La prima parte non sembra quindi così lontana dal nostro presente, mentre nella seconda, ambientata dal 2047, invece, lo scenario distopico è più radicalizzato. Come ha lavorato sulla struttura del libro?
Originariamente pensavo di dare alle due parti le stesse dimensioni, ma poi mi sono resa conto che non volevo un libro troppo lungo. Ho ridimensionato le mie ambizioni, ho ristretto la trama: tagliare completamente il racconto dell’esodo della famiglia, ad esempio, è stata una scelta felice, perché è un cliché narrativo che si è letto così tante volte! La seconda parte quindi è più scorrevole, e nonostante l’atmosfera generale è più comica e più divertente. Non è una fiaba, ovviamente, ma c’è anche una sorta di parodia della ricerca della terra promessa, permettendomi di sconfinare molto nel mio lato libertario, facendo ironia a mezza bocca.
Nei Mandibles è interessante il discorso sulla tradizione che scompare: non si festeggia più il 4 luglio, e le convenzioni sociali più semplici sono uscite come disidratate dalla crisi; parallelamente, gli anziani, i custodi del passato, non muoiono più. Resiste però il valore della famiglia. Come ha lavorato su questo materiale e sul divario generazionale?
Le famiglie sono fatte di generazioni, non ho inventato proprio niente. Ho voluto aggiungere gente a un piccolo nucleo familiare, nella stessa casa piccola e squallida. Il membro della famiglia più povero, Florence, finisce per ospitare tutti quanti, la sua casa è invasa. Ci sono molte tensioni tra i personaggi, e l’equilibrio è dato da queste relazioni: ci sono alleanze, antipatie, cambi di idee e di personalità. Senza queste cose non sarebbe buona fiction. Ad esempio, Avery, la sorella di Florence, fa parte di un mondo benestante che poi si sgretola, e inizialmente è solo una viziatella senza casa. Florence, invece, si prende cura di tutti, e cerca di non lamentarsi; Avery deve ridimensionarsi, accettare un nuovo ruolo per non essere messa in ombra dalla sorella di fronte ai propri figli, e alla fine ci riesce. Diventa un personaggio più reale: non più un peso ma un aiuto per tutta la famiglia. È stato molto divertente ragionare su questo tipo di meccaniche familiari, che sono sempre una buona fonte di intrattenimento.
A proposito di satira, il bersaglio in questo libro è sia l’America degli sprechi che, più apertamente, quel progressismo democratico che non riesce ad aprire gli occhi sulla realtà in rovina. Più volte, ad esempio, la lamentela e la mancanza di adattamento sono gli specchi di una abitudine al lusso ormai ridicola. La satira si spinge anche verso il cattivo uso del “politicamente corretto”, che in America è sempre fonte di discussioni. Il tono del libro è tanto ironico quanto cinico, e questo le ha causato diverse critiche. Che valore dà alla partecipazione politica?
Mi sento fino al collo nella politica. Sento vicina specialmente quella del Regno Unito, dove vivo: quella americana mi deprime. Sono rimasta costernata dalla Brexit, ad esempio. Sono cresciuta in una famiglia democratica; non ho mai votato repubblicano ma direi di appartenere alla destra libertaria, al liberalismo classico. Sono a favore di ogni libertà individuale e civile, mentre sono economicamente conservatrice: le politiche del welfare mi nauseano quando deragliano e disincentivano l’impegno e la cura di sé. Per quanto riguarda le critiche, non direi che I Mandibles sia un libro cinico: anzi, alla fine è genuinamente ottimistico. Afferma la vita, è scherzoso e pieno di humour positivo. Non c’è sarcasmo, ad esempio, e si vuole ridere assieme al lettore. Con questo libro non voglio deprimere nessuno, ma divertire; non voglio disilludere il lettore, ma intrattenerlo e ammaliarlo. I temi economici non sono cinici, ma critici, ed è ben diverso: il libro critica la gestione economica mondiale. Lo abbiamo già visto con la crisi del 2008. Mi ha fatto arrabbiare vedere il crollo dei risparmiatori, della gente normale che lavora duro e spera di avere qualcosa da parte per i propri sogni e le proprie ambizioni. Questo è un problema reale e molto importante. Non è cinismo, ma prendere le cose seriamente.
Il personaggio di Lowell, professore di economia caduto in disgrazia, ad un certo punto riflette su come non sia più plausibile, nel 2029, fare soldi con il lavoro intellettuale. Alla fine, però, è una scrittrice, Nollie, a permettere una sorta di lieto fine per i Mandibles rimasti.
In questo libro ho voluto esplorare l’ironia e la tragedia di quando la civilizzazione decade al tal punto che resta solo lo sforzo per la sopravvivenza quotidiana. Le professioni migliori diventano le meno necessarie, o persino inutili, come tutto ciò che riguarda la vita accademica e intellettuale. Tutto ciò non è più necessario, così come l’arte, che è un lusso – e io amo il lusso. L’arte è il mio lusso preferito. Infatti non dico che queste cose siano inutili, ma che per sopravvivere ci serve anche l’agricoltura. Quando le cose basilari sono in pericolo, è in pericolo anche la volontà di interessarsi ad altro che non sia il nutrirsi. E questo è quello che succede quando la civiltà sparisce, ed è orribile. Questo libro è a proposito della gioia del ritrovamento della civiltà. Nollie e Lowell, alla fine, riprendono a scrivere, e la loro scrittura è un sintomo della restaurazione di una nazione civile.