di Redazione online
Domenica pomeriggio, a Book Pride, Giulio Cavalli presenterà A casa loro, il monologo teatrale scritto insieme a Nello Scavo e uscito da poco per People. Cavalli, che è autore anche di Carnaio, finalista al Campiello di quest’anno, è tra coloro che, in Italia, si stanno impegnando di più per discutere di migrazione, etica e umanità: i suoi libri, anche se con misure e tecniche differenti, parlano proprio di questo.
Inizi il tuo monologo con la parola chiave di questi anni, la stessa che usa Liliana Segre, “indifferenza”. Ecco, forse è qui che conviene fermarsi fin da subito. Nello specifico, in relazione alla questione migratoria, sul rapporto e sugli equilibri tra indifferenza e odio.
Il rapporto c’è ed è evidente. Ma ho molta più paura dell’odio e della ferocia impomatata travestita da diplomazia, quella che burocratizza la morte e ne fa un punto di dibattito politico, piuttosto che degli odiatori seriali. L’odiatore che non prova più nemmeno a mimetizzarsi: è un pervertito dell’umanità, la sua è una reazione infima ma con una logica animale. Chi invece contabilizza i morti, e all’occorrenza esulta o si indigna per qualche morto in più o perché il morto è un bambino e allora fa più effetto, ecco, quelli sono i veri protagonisti dello spostamento dell’etica. Si mimetizzano da brave persone ma contribuiscono molto di più degli sfacciati a spostare la moralità. L’indifferenza è una variante dell’odio, molto più vigliacca.
In A casa loro scrivi che “Quando davvero la storia riuscirà a mostrare le dimensioni della tragedia, sul barcone ripescato sarà il museo della vigliaccheria”. Ecco, è proprio sul nodo della vigliaccheria che bisognerebbe riflettere.
Vigliacchi sono i benpensanti, i moralisti da strapazzo. Sono quelli che ritengono di avere il diritto di non intervenire sulle tragedie degli altri: oltre a non volerle raccontare, addirittura pretendono che non gli vengano raccontate. Nella diffusione della vigliaccheria hanno un grande ruolo anche il giornalismo, le narrazioni, la cosiddetta cultura. È un momento storico in cui i cosiddetti intellettuali pensano di essere o di poter essere apolitici, una stortura storica che non si è mai vista. Ci insegnavano che anche l’ultimo degli operai dovesse avere un ruolo politico nelle sue scelte e nei suoi comportamenti, adesso quando ti permetti di rompere la bolla dei benpensanti vieni accusato di voler lucrare sul dolore.
Quand’è che abbiamo rinunciato a quella gamma di valori?
Abbiamo cominciato a cadere nel momento in cui abbiamo iniziato a differenziare le persone che si spostano: la colpa della sinistra è stata di dirci che ci sono persone che scappano dalla guerra, altre soltanto dalla fame, altre ancora che si spostano per cercare una vita migliore. E allora il valore delle urgenze di queste persone ha dosi diverse, è lì che dobbiamo collocare la morte dell’Occidente culturale: nel momento in cui quella parte di mondo che aveva deciso di differenziarsi sui diritti, la nostra, si ritrova sulle proprie coste qualcuno che arriva e non è niente, non ha niente e non sa fare niente. Di fronte a quel qualcuno, oggi l’Occidente non sa cosa rispondere.
In Italia però moltissimi autori hanno messo la tragedia delle migrazioni al centro del proprio lavoro e della propria poetica. Sono voci che rimangono inascoltate? Si vendono pochi libri, la crisi dell’editoria è sistemica, quindi anche le idee veicolate si diffondono fino a un certo punto.
C’entra soprattutto una certa endogamia di fondo del mondo della letteratura. Alain Delon diceva che gli attori ascoltano davvero solo se qualcuno sta parlando di loro: l’affermazione vale anche per gli scrittori, e per gli editorialisti. Da una parte ci sono le poche copie vendute, dall’altra il disinteresse degli autori che la loro opera letteraria abbia una declinazione sulla quotidianità, come se questo impolverasse l’altezza della loro ispirazione. Riuscire a sfruttare la lingua letteraria per entrare in ambienti aristocratici – mi viene in mente l’esempio di Carnaio al Campiello – è utile perché costringe quell’ambiente ad affrontare il problema. Senza contare che solo in Italia chi decide di esporsi – Murgia, Saviano – viene considerato troppo commerciale e non all’altezza di certi ambienti, di certi dibattiti.
Prima del mare c’è la terra, la Libia. È lì che si gettano le premesse per morire.
Raccontare il mare è più facile, è un topos che funziona alla grande. Per me, in questa vicenda, il mare è il canale di scolo di una merda che sta sulla terraferma, che ha come basi le prigioni libiche, le scrivanie pulite del Viminale, la sordissima sede dell’Unione Europea a Bruxelles. I luoghi del delitto sono questi: il candelabro è il mare, ma i luoghi veri sono questi. C’è poi un altro aspetto di fondo. Se raccontiamo gli annegati come semplici annegati morti in mare, ma non riusciamo a trasmettere che cosa spinga un individuo quasi certo di morire ad imbarcarsi lo stesso, aggrappato a quel minimo d’incertezza, se non raccontiamo le origini delle partenze, rischiamo di essere un po’ retorici.
Carnaio è un romanzo che porta alla luce certi temi e li tratta da una prospettiva artistica, mentre questo tuo monologo si muove verso un’altra direzione e da diverse prospettive, è più agile, militante, punta al coinvolgimento diretto del pubblico ma usa anche gli strumenti del saggio.
Questa varietà di scrittura mi dà il privilegio di stare sulla notizia con il pezzo giornalistico, di fare un teatro-giornale sul palcoscenico e quello di poter spezzare i limiti fisici e temporali nel romanzo. Mi viene molto naturale: mi sono ritrovato a fare tutti questi mestieri contemporaneamente perché ho delle esigenze che solo così riesco a soddisfare. Ognuna di queste mie scritture ha delle caratteristiche che vanno sfruttate: nel caso di A casa loro ho il privilegio di passare un’ora con delle persone che escono, cenano, cercano parcheggio, entrano in teatro e mi dedicano il loro tempo così, sulla fiducia. In quell’ora, con il teatro, cerco di distruggere tutto ciò che loro credono sia vero e sulle macerie ricostruire un nuovo angolo di osservazione della realtà, che è il ruolo degli arlecchini, come nella Commedia dell’Arte: la realtà raccontata da un angolo inaspettato. A casa loro è stata una grossa opportunità, perché quando io e Nello l’abbiamo scritto di Libia si parlava ancora pochissimo, e sempre come se fosse un luogo esotico. La Libia, invece, è il sacco dell’umido delle pessime abitudini dell’occidente, e a noi continua ad arrivare il percolato.
Il rischio però è quello di parlare a un pubblico che è già allineato, che ti ascolta perché sa che dirai ciò in cui credono e che vogliono sentirsi dire.
È una preoccupazione che mi ammorba spessissimo, parlare a chi già sa. Allora mi sono fatto una promessa: devo fare tutto il possibile perché chi è già accordato con me a livello di sensibilità e pensiero, nel momento in cui mi legge o mi viene a vedere se ne torna a casa con una cassetta degli attrezzi che gli serve per rendere ancora più appuntita la sua opinione.