Un artigiano che compone partiture nascoste
intervista di Beniamino Sidoti – Libri Calzelunghe
L’intervista a Mo Willems inaugura la collaborazione dell’Indice dei Libri del Mese con Libri Calzelunghe, rivista web dedicata alla letteratura per bambini e ragazzi, nata nella primavera del 2016 da un progetto collettivo voluto da 14 professionisti del settore – blogger, librai, editor – per parlare di letteratura per l’infanzia con professionalità e competenza. Per l’Indice seguiranno i festival e i grandi eventi dedicati alla letteratura per ragazzi.
Mo Willems, statunitense, classe 1968, è autore e illustratore e in Italia i suoi libri sono tradotti dal Castoro. La sua serie da noi più famosa è “Reginald e Tina”, con un elefante e una maialina che dialogano in scene surrealmente profonde; al momento dell’intervista, sfogliamo e maneggiamo anche Non è una buona idea, la storia di una volpe che cerca di ingannare un’oca per poterla mangiare, e infine finire male. Ma male, eh, come solo una volpe può finire male in una storia per bambini.
E poi sul tavolo, un tavolo di cartone del Festivaletteratura di Mantova, sta l’ultimo libro di Willems, La storia di Diva e Pulce, illustrato da Tony DiTerlizzi, che Willems è qui per presentare.
Guardando il suo lavoro si percepisce un’attenzione artigianale all’uso che bisogna fare del libro, oltre che alla dimensione artistica. Si considera più un artista o un artigiano?
Beh, mio padre è un artigiano, un ceramista. E io stesso ho cominciato lavorando in televisione, con un lavoro per definizione artigianale… sì, mi considero un artigiano. I vasi di mio padre devono anzitutto funzionare, tenere l’acqua, essere “strutturalmente sani”: e così i miei lavori, che tengono non acqua ma idee e pensieri. Penso a me stesso come a un artigiano, sempre, quando lavoro: un artista vuole che il suo pubblico lo capisca, un artigiano invece vuole capire il suo pubblico. E a me interessa capire.
Quindi c’è una propensione familiare?
Sì, qualcosa che ho imparato da bambino, un’esperienza familare, direi piuttosto. Ma anche, come dicevo, un perfezionamento professionale avvenuto nei miei anni di televisione, in un ambiente eccezionale come quello di Sesame Street, dove prima di produrre controllavamo ciò che stavamo facendo direttamente con il nostro pubblico, e vedevamo se funzionava.
Ma poi ha lasciato la televisione…
(ride) Sì, volevo scrivere storie che parlassero del fallimento! Un tabù per la televisione, ma un’esperienza centrale, la vera esperienza di crescita per tutti noi. La televisione non può parlare di fallimento, deve sempre cercare un messaggio positivo e il protagonista deve riuscire: invece a me interessa anche parlare di questo, del momento in cui il tuo piano non riesce, del fatto che la volpe non riesce a mangiarsi l’oca (mi mostra Non è una buona idea)… fossi stato in tv, avrei dovuto trovare il modo per conciliare e rispettare anche gli interessi della volpe, per lasciarle una via di uscita. Ma sarebbe stata una storia meno buona!
Forse semplicemente è così: a un certo punto mi sono sentito limitato creativamente dalla televisione, cui pure devo tanto. L’ho sentito come un ambiente limitante perché costoso, conservatore perché ogni cosa che fai e che scrivi deve funzionare “per tutti” e non puoi rischiare per non perdere tutti i soldi investiti.
Nei suoi lavori per bambini dà spesso l’impressione anche di rivolgersi al pubblico adulto, come se chiedesse loro di far qualcosa, di leggere ad alta voce in un modo particolare.
È così! Queste pagine che sembrano schermate di un film muto non sono una citazione colta, ma un invito, o una partitura senza parole. Gli adulti sono la mia orchestra, e io sono un compositore: quando scrivo, quando realizzo un libro, penso a come la mia orchestra suonerà la mia musica e dò loro delle indicazioni, nascoste ma brillanti. La mia orchestra deve esserne affascinata.
Dunque nei suoi illustrati è lei a fare tutto?
Sì: sono autore e illustratore, ma ho il controllo totale, dalla font al corpo, i colori usati e le dimensioni di stampa, la copertina e il dorso del libro. Così il lettore non si accorge di niente, i suggerimenti fanno parte di un’idea naturale: quando un adulto fa una voce particolare, o una certa pausa, pensa che sia una sua idea – ma sono io che lo sto suggerendo. A me serve che la mia orchestra faccia quello, e che lo faccia con l’entusiasmo di chi sente di avere appena avuto una buona idea.
E il bambino?
Il bambino non ha bisogno di tante sovrastrutture come lettore: noi lo vediamo come un libro, ma lui lo vede come un oggetto del mondo, come un giocattolo o qualcosa con cui giocare. Per lui ogni libro è naturalmente unico.
Parlava prima di Sesame Street… Ci ha detto cosa ha sentito limitante, e invece cosa ha imparato da quella esperienza? Cosa si porta dietro?
Alcuni criteri che fanno parte del mio modo di intendere questo mestiere, alcune qualità. Anzitutto la brevità: intesa anche come obiettivo… voglio sempre che la seconda bozza sia più corta. Per funzionare una storia deve essere sempre sull’orlo del collasso, deve essere appena comprensibile, non ci deve essere troppo. Quando è un racconto illustrato, dovrebbe aver senso solo con i disegni accanto: quando un testo destinato a un picturebook non si capisce quando lo leggi, quando non ci sono le figure, allora è probabile che sia un buon manoscritto.
E come cambiano le cose quando lavora come sceneggiatore per qualcun altro? Come mai in Diva e Pulce ha scelto di lavorare con DiTerlizzi?
Perché il sentimento dominante del libro è diverso: non corrisponde al mio segno, divertente, ironico, scanzonato… questa è una storia romantica e aveva bisogno della mano di Tony, del suo segno. E ha fatto un ottimo lavoro, lo abbiamo fatto insieme, spesso fianco a fianco, da buoni vicini. Come abbiamo lavorato? Siamo partiti dalla storia, che è la storia di un incontro tra due personaggi, ma anche la storia di come un americano vede Parigi: noi vivevamo dietro l’Arco di Trionfo, un posto che abbiamo scelto per via del pessimo senso d’orientamento di mia moglie che aveva così un monumento che poteva scorgere da lontano! Beh, ne è venuto fuori un libro di cui sono molto contento, che credo restituisca anche ai francesi un’idea di come loro stessi sono: i nostri amici francesi ci parlano di come in Italia si possa uscire, prendere un caffè, ma magari non si accorgono che loro stessi queste cose le fanno in continuazione.
Spesso le sue storie sono storie di un incontro e di un cambio continuo di punti di vista. Qui sembra quasi fare un omaggio a Lilli e il vagabondo.
Sì, è vero! Ma è una citazione non voluta: volevo un libro che sembrasse un vecchio libro, quindi il segno è forse quello di quegli anni…
Anche il punto di vista, così basso, è tipico di quel film!
Verissimo: ma anche questo fa parte del nostro libro, non era una citazione. Avevamo bisogno di un punto di vista “piccolo e basso”, che permettesse di aprirsi a paesaggi più vasti nelle aperture del libro, come dove appare la Tour Eiffel: è un libro per lettori autonomi, ma pensato come un picturebook, dove le aperture sono preparate anche graficamente… E quel punto di vista ci serviva anche per parlare di stati d’animo, di emozioni: entrambi i personaggi escono dalla loro “comfort zone”, e questa sensazione si traduce bene, senza nominarla, usando il punto di vista. A me, a noi, piace molto “scrivere senza parole”!
Come avete lavorato insieme?
Come dicevo prima, in modo molto collaborativo, con una sceneggiatura precisa ma non troppo dettagliata, e con continui confronti. Nella prima versione, per esempio, così come Diva aveva un fiocchetto, Pulce aveva un campanello: ma Tony mi ha fatto notare che era fuori luogo, perché il nostro gatto non aveva ancora davvero incontrato gli umani, e il campanello è sparito.
E in generale da cosa parte per un nuovo progetto? Da dove vengono le sue idee?
Mi piacciono le storie che vengono da domande cui non ho la risposta: in questo caso, appunto, “Perché non lasciamo la nostra comfort zone?” Ma ogni libro ha una sua risposta, una sua domanda. Più in generale, crescendo, ho iniziato ad amare l’idea della creatività come un giardino: non sono lì a piantare idee, ma a cercare di capire cosa sta crescendo. E se qualcosa cresce, qualunque cosa sia, se qualcosa cresce bene, so che devo dedicarci attenzione. Non amo più essere troppo al comando del mio stesso processo creativo, ma preferisco guardare e vedere cosa viene fuori.
Spesso le sue storie sono costruite intorno a due personaggi… a volte crea una dialettica perfetta intorno alle domande senza risposta: è questo?
Forse, anche. Ma più in generale, come per Reginald e Tina, è perché scrivendo cose buffe amo le coppie comiche: e loro sono un duo comico che mi funziona, mi viene naturale. Quando hai una dialettica così, il resto viene da sé, è come una struttura cui puoi appoggiare tutta la storia, sia che tu la stia scrivendo, sia che tu la stia leggendo.
È un meccanismo classico, tipico anche del cinema muto e del primo sonoro…
È un periodo che amo: amo Buster Keaton, amo i Fratelli Marx, e tutte le coppie comiche del cinema di quei tempi. Ammiro il loro senso dell’economia nella costruzione di una storia. Io miro a fare lo stesso, a mettere nella scrittura il 49% del senso, lasciando al lettore il gusto di metterci il suo 51%.
B Sidoti è scrittore e tra i fondatori di LuccaGames