Il viaggio weird dell’inquisitore Eymerich
di Franco Pezzini
“‘Padre Nicolas, cosa fate qui?’ Si lasciò baciare la mano. ‘Ammirate questi splendidi palazzi imperiali?’. La definizione, riferita al Campidoglio e ai suoi dintorni, era paradossale. La facciata del palazzo municipale e senatoriale, a due piani con finestroni, era scrostata e solcata da fessure incise dall’incuria e dai terremoti. Gli ornamenti erano catene, ruote, battenti e altri ammennicoli strappati ai nemici in battaglie dimenticate. C’erano anche resti arrugginiti dell’antico Carroccio milanese”.
In questo scenario, con un occhio agli studi storici e uno a certa quotidianità a noi nota (il corsivo è mio), Valerio Evangelisti conduce il suo antieroe intelligentissimo e cattivissimo, l’inquisitore Nicolas Eymerich, nella sordida Roma dove è tornato il papa, dove in tempi rapidi si consuma il Grande Scisma d’Occidente e dove un culto antico pagano pare rialzare la testa. Con l’affresco impietoso di beghe tra cardinali, isterismi, misticismi dal sapore d’insopportabile buonismo e allegre crudeltà, Il fantasma di Eymerich (pp. 266, € 20,00, Mondadori, Milano 2018) è tra le puntate più maliziosamente divertenti di una saga senz’altro “popolare” che scintilla di cultura e intelligenza. E ad indagarla con passione giunge ora il denso saggio Nicolas Eymerich. Il lettore e l’immaginario in Valerio Evangelisti di Alberto Sebastiani, pubblicista e docente presso l’università di Bologna (pp. 237, € 18, Odoya, Bologna 2018). Articolato in cinque capitoli, lo studio parte da una riflessione sul senso della ricerca, l’incalzare gli indizi di un disegno generale che corre in tutta l’opera dell’autore bolognese – il “One Big Novel”, a usare un titolo del suo Ciclo Americano – a “far ragionare su un discorso impegnativo: la storia dell’uomo moderno e il suo futuro”.
In effetti nella saga di Eymerich non entrano solo vicende del Trecento, ma altre connesse di secoli dopo, stranianti paradossi temporali e riflessioni che rimandano alla fantascienza; e nel cap. 2 Sebastiani ne analizza il “canone” e le “estensioni”, con attenzione a composizione (1994-2018) e cronologia interna (in genere sparigliata su tre livelli, cioè il “tempo base” dell’inquisitore, un “livello 1” tra il XX e XXI secolo, e un “livello 2” esteso anche molto oltre, nel futuro). Proprio in merito a tale struttura peculiare il cap. 3, Decolonizzare l’immaginario, accantona anzi come inutile una questione che ha suscitato un certo dibattito sul web e che merita una parentesi: cioè la funzione classificatoria del termine weird, dalla storia lunga e nobile anche in chiave pop. Si pensi solo alla leggendaria rivista pulp americana Weird Tales (1923-1954).
Approssimativamente traducibile come “strano, misterioso” – poco in comune con lo “strano” di Todorov –, il vocabolo si trova attestato fin dal 1400 da wierd, inglese antico wyrd, “fato, destino”, cfr. norreno urðr, “fato, una delle tre Norne”: un’origine cui richiama la nota definizione Weird Sisters per le streghe del Macbeth (appunto tre come le Norne: in realtà tramite le Chronicles di Holinshed, 1587, perché Shakespeare usa weyward e non weird) e che veicolerà un significato di “strano, disturbantemente diverso”. Sia come sia, weird fiction è ormai una dicitura d’uso nel mondo anglosassone per un sottogenere di speculative fiction con origini nel tardo Ottocento: e sempre più – si veda il dibattito sul new weird e il lavoro di Ann e Jeff VanderMeer – trova utilizzo per quel tipo di opere del fantastico al crocevia tra un genere canonizzato e l’altro (fantascienza, fantasy, horror…). In un pezzo-monstre a più firme comparso l’anno passato sul sito “Not” (Il canone strano. Da Calvino a Evangelisti, da Buzzati a Moresco: per una possibile storia della weird fiction in Italia, 8 maggio 2018, il curatore Carlo Mazza Galanti ricordava che “tra i viventi, autori di riferimento sono considerati abbastanza unanimemente China Mièville e il più anziano M. John Harrison; Mervyn Peake è riconosciuto come un predecessore importante, e dietro tutto questo ci sono i grandi precursori Kafka e Lovecraft (e dietro ancora Poe e Hoffmann); a partire da queste non troppo definite coordinate è stato costruito una specie di canone anglosassone attuale comprendente, oltre ai suddetti, autori come Michael Moorcock, Thomas Ligotti, lo stesso VanderMeer”.
Mentre per il panorama internazionale si sono indicati Alfred Kubin e gli italiani Buzzati e Luigi Ugolini. Di qui la proposta di Mazza Galanti di stabilire almeno un primo abbozzo di canone d’un weird italiano, ascrivendovi opere di Buzzati, Calvino, De Maria, Landolfi, Levi, Manganelli, Mari, Moresco, Morselli, Ortese, Papini, Savinio, Soldati, Volponi, Wilcock, più appunto Evangelisti; e la pubblicazione è stata seguita da un’onda lunga di riflessioni, puntualizzazioni e polemiche. Alcuni lettori vi hanno visto l’avallo di un’etichetta modaiola anglosassone soltanto più appetibile delle tradizionali; un pregiudizio intellettualistico nel taglio troppo “alto” della selezione (dell’orizzonte pop, si osserva, è presente solo Evangelisti); l’inserimento di opere non strettamente “fantastiche”, che finirebbe col rendere il tutto troppo generico (ma in effetti weird rimanda anche ai concetti più sfumati di “insolito” e di “visionario”). D’altra parte tentativi di riportare il discorso a un registro molto più popolare sono stati condotti in tempi recenti per esempio da Fabio Lastrucci e Vincenzo Barone Lumaga in Com’era weird la mia valle. Sei percorsi tra orrore, paura e perturbante (pp. 354, € 19,90, Milena, Napoli 2018), e da Walter Catalano, Gian Filippo Pizzo e Andrea Vaccaro nella ricchissima Guida ai narratori italiani del fantastico. Scrittori di fantascienza, fantasy e horror made in Italy (pp. 352, € 22, Odoya, Bologna 2018), dove weird è tranquillamente utilizzato.
Quale che sia il valore classificatorio di un’etichetta descrittiva tanto ampia, weird suggerisce spesso l’idea di paradossi nella percezione del tempo e della realtà, come appunto in Evangelisti. Ma più proficuo che cercare d’incasellare in un genere specifico, obietta Sebastiani sensatamente, è cogliere una chiave connotante proprio nell’ibridazione, identificare i singoli generi popolari cui Evangelisti attinge (a partire dal poliziesco dell’ordine infranto che di volta in volta l’inquisitore, cercando la verità, deve ristabilire) e soprattutto comprendere la funzione politica di un utilizzo dei generi pop. Se la letteratura popolare ha il potere di influenzare le masse, allora può avere un ruolo nel conflitto per decolonizzare e liberare l’immaginario: “Romanz(ett)i, riviste, poesie e canzoni popolari fanno (…) emozionare, alimentano idee rivoluzionarie, ribellistiche, irriverenti verso potere e potenti. Il contropotere della letteratura deriva dalla forza con cui evoca gli archetipi”.
Procedendo, il cap. 4 tratta del viaggio interiore di Eymerich, personaggio schizoide e represso che però lentamente prende atto della propria incompletezza e via via si trasforma confrontandosi – junghianamente – con l’Anima attraverso una serie di figure femminili. Dunque “un eroe popolare tutt’altro che monolitico, anzi, la sua missione vera e propria è la trasformazione. Di sé, degli altri, del cosmo”, al punto che in un vertiginoso futuro si trova a divenire Rex tremendae maiestatis, “chiamato a dominare la terra come Dio domina il cosmo, e agente per Suo mandato”: una sorta di demiurgo gnostico che accetta così la teologia dei suoi ne-mici, ma per continuare a combatterli. Non diventa “buono”: “se prima era un mostro incompleto (…), ora ha risolto la sua incompletezza, i suoi superproblemi, ed è fortificato nella sua malvagità. (…) È il rettore del cosmo. Lo deve modellare in relazione al disegno divino di cui è interprete la Chiesa, ‘tomista’, fondata razionalmente, che domina e uniforma, ovvero l’istituzione (il potere) che l’Inquisizione deve imporre, reprimendo ogni atteg-giamento, voce, visione del cosmo discordante. La volontà di Eymerich, a questo punto, è il futuro”. Dove proprio il tema del potere, della sua conquista e del suo esercizio, del conflitto tra chi lo detiene e chi lo subisce, è l’elemento narrativo che unisce il One Big Novel; mentre a corrervi come un filo rosso è il “nuovo paradigma razionalistico, che per Evangelisti sembra nascere con la riscoperta di Aristotele nel XIV secolo e raggiungerebbe il suo trionfo nello scientismo positivista, di cui i drammi del Novecento e quelli immaginati per il futuro sarebbero gli effetti distopici”.
Ombra del potere e, in quanto demiurgo, ombra di Dio (il Male, in sostanza), personificazione del paradigma della divisione, Eymerich è in qualche modo l’ombra del nostro tempo. E il fascino che il lettore prova per lui non si esaurisce nella consonanza del nostro lato oscuro con singoli aspetti del suo carattere: Eymerich funziona rispetto al lettore come un vero e proprio custode della soglia, che sfida a verificare i nostri paradigmi. Non quelli che proclamiamo, ma quelli ai quali aderiamo in profondità; e ai meccanismi narrativi che permettono il paradosso dell’immedesimarci in un personaggio tanto negativo è dedicato il cap. 5. Con i suoi conflitti interiori ed esteriori (il classico supereroe con superproblemi), la sua costante presenza in scena, l’uso sapiente del continuo entrare/uscire da lui, Eymerich ci offre “una focalizzazione dominante che (…) permette di analizzare e capire più a fondo quanto avviene, ma con una precisa prospettiva, un filtro ideologico e culturale. È la prospettiva del potere”, dove la finzione letteraria si ispira a una base storica purtroppo reale. Però a quel punto, giocata la carta dell’attrazione verso Eymerich del lettore, Evangelisti lo provoca – fornendo una serie di tasselli di presa di coscienza storica, economica e sociale – a ribellarsi a un simile guardiano della soglia. Il lettore “gode dell’avventura, di una narrazione ricca e ben costruita, complessa, ma scopre che è finalizzata a usare la piacevolezza della paraletteratura e il suo ‘massimalismo’ genetico per attuare un uso improprio (o proprio) di armi dell’intrattenimento di massa con un’intenzione sovversiva. Il campo di battaglia è ancora una volta l’immaginario”. L’eroe dell’avventura diventa insomma il lettore, chiamato ad affrontare l’ombra di sé e del mondo in cui vive, e a non farsi assorbire dal trickster Eymerich che cerca di possederlo ostacolando la sua visione della verità; chiamato ad affrontare l’avventura insieme con altri, ricreando un legame sociale distrutto dalla logica chiusa che da Eymerich traghetta all’oggi capitalistico. Se in sostanza, chiudendo questi libri, oltre al divertimento proviamo una certa inquietudine, “allora qualcosa ha fatto effetto, e forse il viaggio non è finito. Bisogna scegliere da che parte stare: è questa la provocazione di Evangelisti”.
F. Pezzini è redattore e saggista