La pagina su Harold Bloom è tratta dal numero di maggio 1998 dell’Indice dei Libri del Mese
Misurarsi con l’Olimpo
di Alberto Castoldi
L’enunciazione di un canone è innanzitutto una sfida al caos, all’entropia, è la proposta di una “forma” come epifania di un’identità possibile. Il canone è l’unico orizzonte in cui il dialogo e l’identità possono dispiegarsi al di sopra della frammentazione in cui siamo altrimenti destinati a fare naufragio. Si tratta dunque di una procedura che può essere implicita nel nostro discorso, ma non eludibile, e costituisce in ogni caso l’atto fondativo del nostro rapporto con la letteratura, e quindi atto ideologico per eccellenza. Appare quindi un po’ singolare il perdurare nella nostra cultura di una sostanziale indifferenza a questa problematica che di fatto è assolutamente presente, senza però che sia mai stata adeguatamente evidenziata e discussa, anche nella nostra tradizione. L’assenza di un dibattito approfondito al riguardo è tanto più grave in quanto sono i fondamenti stessi di questa problematica a essere attualmente messi in discussione.
Marcel Schwob in un articolo del 1892 intitolato La perversità avvertiva che “in questa nostra epoca siamo dominati dai fantasmi dell’eredità e della letteratura estrema”, e già Proust poteva mirabilmente individuare una sorta di canone della modernità nella “incompiutezza”, nella fallimentarità “di tutte le grandi opere del XIX secolo”, canone che per il fatto di evocare un dato strutturale non era per questo meno ideologico. Flaubert con Bouvard et Pécuchet aveva celebrato il lutto della letteratura, Gide teorizzerà addirittura che ogni opera debba “contenere al suo interno, ma nascosta, la propria confutazione”. Per altro verso la fruizione letteraria fa sempre più appello alla soggettività, alla memoria sociale, culturale, del lettore, cui è demandato il compito di scorgere quei risvolti “d’una straordinaria profondità” (Proust) che lo scrittore non si cura di segnalare, quei vuoti che lo stesso Balzac definisce “il sonno”, l’inconscio del romanzo. II carattere multietnico della cultura, peraltro, fa sì che attualmente si possano costruire canoni che escludono punti di riferimento tradizionalmente ritenuti essenziali, e non ci si può certo stupire se, come è recentemente avvenuto, intellettuali neri propongono all’interno di una cittadella del sapere americano un macrocanone in cui molti dei pilastri tradizionali della cultura occidentale non trovano collocazione, non sono fruiti. In questo contesto la cultura europea non può più credibilmente arroccarsi nella difesa dei propri “romanzi familiari”, ogni canone risultando ormai del tutto inadeguato a mettere ordine nel panorama del sapere, e Harold Bloom è costretto a ipotizzare un canone occidentale dove, al di là delle discutibili presenze o assenze, ciò che conta è il ruolo egemone che egli va configurando per la letteratura angloamericana, al fine di contrastare le altre culture a matrice extraeuropea. Ma è poi singolare che in questa galleria di ritratti non figurino autori quali Boccaccio e Petrarca che hanno modellato per secoli la cultura occidentale, e che sono quindi parte essenziale della sua identità.
Non è chiaro dunque quale sia il criterio che consente di elaborare lo “spazio letterario” di Harold Bloom: la rilevanza degli autori in base all’influenza esercitata, misurabile attraverso le imitazioni, l’altezza assoluta degli esiti, l’attualità delle loro opere? Sono d’altra parte queste le stesse ambiguità reperibili in un canone “involontario”, ma non per questo meno operante, come quello implicito nelle scelte di una delle collezioni più prestigiose dell’editoria francese, “La Plèiade”. Agli esordi i testi coincidevano quasi esclusivamente con i classici francesi, vale a dire gli autori consacrati nei manuali scolastici; successivamente si è dato spazio anche ai principali esponenti delle culture europee, infine, ai giorni nostri, ecco il proliferare accanto ad autori francesi di successo come Jean Giono, rapidamente canonizzati per ragioni economiche, anche numerosi esponenti delle culture orientali (cinesi e giapponesi), mentre continuano implacabilmente a mancare Boccaccio e Petrarca. Il panorama che si va attualmente delineando vede il proliferare di canoni in funzione dei “romanzi familiari” più diversi, poiché la struttura del vecchio nucleo culturale elitario si è disintegrata e le aggregazioni tengono sempre più conto di percorsi d’identità trasversali (gruppi sociali, gruppi etnici, diversità sessuale, ecc.), che attingono alla tradizione indipendentemente dai valori consacrati dalle storie letterarie. Se questo rimescolamento dell’eredità culturale si rivela per tanti aspetti assai stimolante, per altro verso assimila sempre di più il discorso del canone a quello della moda e alle sue leggi, in particolare quella che impone il cambiamento stesso come primario rispetto ai contenuti, per cui lo straniamento diventa la condizione esistenziale dominante.
E su questo mutamento epocale che Harold Bloom ci invita a riflettere, e l’imponente sequenza di autori che va dispiegando è lì a testimoniare anche dell’imponenza dei suoi bisogni, della necessità di misurarsi con l’Olimpo per gestire L’ansia” implicita in ogni canone: “Il canone letterario non ci battezza dandoci accesso alla cultura – egli scrive –, non ci affranca dall’ansia culturale. Anzi, conferma le nostre ansie culturali, ma contribuisce a dare loro forma e coerenza”. Il canone, infatti, da un lato è rassicurante, svolge una funzione d’ordine, dà forma e senso, ma dall’altro si costituisce come cifra dell’inconscio del suo autore, della sua peculiare “ansia”: rivisitare la tradizione, misurarsi con i padri, riformulare le genealogie dei valori, scrollarsi di dosso l’ipoteca del già detto, avvertito come inautentico perché subito e non conquistato.
Contro il risentimento
di Armando Petrucci
Nell’autunno del 1994 il libro di Harold Bloom, The Western Canon. The Books and Schools of the Ages era stato appena pubblicato a New York (Harcourt Brace & Co.) e già riempiva vetrine, scaffali e moquette delle maggiori librerie nordamericane in variopinte pile di copie freschissime, e i giornali e le riviste di recensioni e di polemiche. Ora è giunto in Italia a cura di Bompiani con un titolo ricalcato su quello inglese e forse non del tutto chiaro al lettore italiano; così come il libro in sé, che rischia di rimanere poco comprensibile a chi non conosca la personalità esagerata, ingombrante e aggressiva dell’autore, professore a Yale e a New York, dotato per di più di trascinanti doti di comunicatore, e ignori le vicende e le radici dell’accesa polemica culturale che da qualche tempo agita e divide il mondo letterario anglosassone e soprattutto quello statunitense. Il tema della polemica è, appunto, la natura del canone letterario, cioè di quell’elenco più o meno fisso di grandi autori e di grandi opere, da Omero a Derrida, su cui poggia la struttura portante della cultura occidentale, e in particolare l’insegnamento superiore nelle facoltà umanistiche delle università nordamericane. E proprio in esse è nato abbastanza di recente un moto composito di reazione a questo patrimonio culturale tradizionale, fatto di autori “maschi, bianchi, europei e morti”, per modificarlo e sostituirlo con altri elenchi, altri canoni, fatti di testi prodotti da donne, da afroamericani, da asiatici, da “latini” e fondati su una concezione apertamente multiculturale della letteratura e dei suoi valori; il che non può meravigliare in un paese sempre più fortemente e profondamente multirazziale e plurilinguistico. Il libro di Bloom è un vero e proprio “urlo” di protesta contro questo moto ormai largamente diffuso, a suo parere generato da quella che egli pittorescamente definisce la “scuola del risentimento”, composta di “femministe, marxisti, laacaniani, neostorici, decostruzionisti, semioticisti”, e il cui maestro (nientemeno!) sarebbe Antonio Gramsci. Ma Bloom, eccellente polemista e scrittore, non è soltanto un critico esuberante e volutamente ignorante e pasticcione; è anche autore di fulminanti giudizi e di gustosi calembour, come quando proclama di preferire, fra i Marx, Groucho a Karl, anche se questo gli serve per qualificarsi (lui, cardine del sistema letterario e universitario, autore di successo, ecc. ecc.) uno che è sempre stato “contro”! Ma contro chi e cosa?
Naturalmente anche Bloom presenta un suo proprio canone, fatto di poco meno di trenta autori, da Dante sino a Beckett e Neruda, al cui centro si pone Shakespeare; un canone quasi interamente di lingua inglese, tranne poche eccezioni, e in cui l’unico autore italiano è, appunto, il primo, e cioè Dante. In realtà Bloom ha qualche ragione nel sostenere che in fondo gli Stati Uniti, come società, sono privi di un vero e proprio canone, in quanto quello che si presenta come tale è soltanto un programma di studi umanistici a livello universitario. Ma il canone oggi è in crisi dappertutto, anche in Europa, innanzitutto perché la produzione editoriale è enormemente estesa e non ammette più esclusioni e selezioni; poi perché le specializzazioni culturali e linguistiche hanno fatto sì che un canone unitario non abbia più alcun senso; e infine perché l’informatizzazione delle comunicazioni anche culturali ha per suo conto contribuito a dissolverne il concetto stesso, legato a pratiche forti e consapevoli di registrazione, durevoli nel tempo e non effimere; basti pensare a quanto ne hanno scritto di recente un antichista come Jan Assmann e uno storico della cultura scritta come Roger Chartier (Culture écrite et société. L’ordre des li-vres XIVe-XVIIIe siede, Albin Michel, 1996); ma Bloom ignora tranquillamente tutto questo. Quanto questa lunghissima serie di saggi letterari (in tutto quasi cinquecento pagine) possa interessare il lettore italiano colto, io non lo so. Resta il fatto che con tutte le sue singolarità questo libro costituisce anche un’originale testimonianza della lotta per il predominio in campo culturale e letterario che sta dividendo nel mondo anglosassone l’ambiente accademico, quello editoriale, quello del giornalismo di qualità, quello politico; dunque di un fenomeno che non può non avere qualche riflesso anche sulla più quieta cultura umanistica europea.