recensione di Mauro Maraschi
Giovanni Bitetto
SCAVARE
213, € 16
Italo Svevo, 2019
Giovanni Bitetto (Andria, 1992), che ha già dato prova delle sue abilità di critico letterario su il Tascabile, l’Indiscreto e altrove, esordisce adesso con un’opera di narrativa ospitata dalla casa editrice Italo Svevo, marchio di Gaffi, all’interno della collana Incursioni diretta da Dario De Cristofaro: basti sapere che l’ultimo titolo di questa neonata e promettente collana è Le isole di Norman di Veronica Galletta, fresco vincitore del Premio Campiello Opera Prima. Scavare riprende il topos letterario della rivalità tra intellettuali, e in particolare quella tra uno scrittore e un filosofo. La ricostruzione degli eventi, affidata alla voce dello scrittore, prende piede dalla sconfitta dell’avversario, resa possibile soltanto dal decesso di quest’ultimo; fin da subito, infatti, lo scrittore elogia il rivale quanto sminuisce se stesso, ammettendo la propria inferiorità: «Diedi sfogo al mio espressionismo d’accatto, lo stile che, debitamente depurato, levigato, riportato al docile contesto borghese, pratico ancora oggi e mi permette di avere un guadagno». Eppure, se il movente ufficiale è quello di scrivere un peana, dall’altro, attraverso l’abbattimento di privacy e pudore, la voce narrante finisce per svilire un personaggio pubblico celebrato da tutti. Questo processo di affettuosa demolizione ha luogo nell’arco di una notte, durante la quale viene ripercorsa quest’ambigua amicizia a partire dai tempi del liceo: ne deriva un lungo monologo autoindulgente nel quale lo scrittore, più che analizzare i punti di contatto tematici ed emotivi col filosofo, celebra indirettamente se stesso.
Antiromanzo ambizioso e consapevole, Scavare propone una visione coerente e affascinante della letteratura, concepita come un disperato tentativo di salvezza: «È proprio dal fallimento infatti che si origina la letteratura, dall’esile respiro del linguaggio che si scopre inadeguato a nominare il mondo e per questo si sforza di superare se stesso. Non c’è pensiero alcuno nello spazio letterario, nessun approdo sicuro, lo sa lo scrittore che si ingegna per abbracciare il tutto, anzi, per inventarlo, frase dopo frase, un periodo costruito sull’altro, nella speranza che il vuoto non risucchi ogni sillaba». Tante le scelte narrative di forte impatto, tra le quali la malattia che ha accompagnato il filosofo per tutta la vita, l’estrofia vescicale, che può essere interpretata come scaturigine e rappresentazione del suo sistema di pensiero. Dal punto di vista filosofico, il romanzo parte dall’assunto che all’uomo siano concesse due azioni, «scavare nel proprio animo o seppellirsi nelle cose del mondo», ma non propone soluzioni, anzi, suggerisce un’equivalenza delle due posizioni di fronte alla morte. I drammi delle sottotrame sono trattati con il giusto pathos, e, se da un lato contribuiscono alle atmosfere lugubri, dall’altro non si innestano davvero nel meccanismo narrativo, dominato dalla forma monologante e da un incedere rettilineo.
Bitetto ha optato per un impianto lineare che gli consentisse di esprimere il proprio talento; non a caso, il testo è fornito di anticorpi metaletterari che instradano il lettore: «In quelle storie non c’è un grammo di verità, o meglio, c’è il peso del desiderio, di come volevo che andasse, ma tutto è sepolto sotto strati di finzione, inquinato da parole deformi». La prosa è cesellata e cristallina, quasi sempre ispirata, di una musicalità apprezzabile e con alcuni movimenti entusiasmanti, e in generale c’è tanto mestiere. Attenzione, però, perché non si può parlare di virtuosismo gratuito, bensì dell’intento di Bitetto di collocarsi in quell’area della letteratura nazionale nella quale egli stesso, in veste di critico, ha collocato Franzosini, Mari, Tuena e Del Giudice, con le dovute distinzioni.
Al contempo, in Scavare tutto è accennato e atemporale: il personaggio dello scrittore affronta tematiche centrali nella storia della letteratura, mentre il filosofo è addirittura «il maggior teorico dell’ultimo decennio», piuttosto che l’esponente di una qualsiasi frangia del pensiero moderno. Universali appaiono anche le riflessioni politiche, come quando lo scrittore accusa il filosofo di essere stato distante dalle cose del mondo: «Non t’importa delle ossa rotte nelle manifestazioni, dei proclami masticati. […] Non sarò io a suggerirti di prendere le parti delle folle rabbiose ma ti chiedo di nuovo: la tua è politica?»; ma soprattutto: «[…] consideravi il comunismo classico un esperimento riuscito a metà perché sbagliato nelle premesse teoriche, a differenza delle architetture del tuo pensiero, del lavoro covato per così tanti anni nella verginità dei dipartimenti, le teorizzazioni che – a detta dei commentatori, degli studiosi, dei tuoi seguaci –, se messe in pratica in maniera rigorosa, avrebbero potuto cambiare la storia della dottrina politica». Si tratta di accorgimenti consapevoli, come quello di rappresentare un filosofo che, pur essendo assimilabile ai post-strutturalisti francesi, tende a incarnare il genio universale: «[…] l’attacco a ogni forma di psicanalisi, alla pratica psicologica, psichiatrica, alla medicalizzazione sulla base di errate convinzioni neurologiche. La figura del padre, della madre, i temi dell’odio generazionale, della condizione giovanile, la rilettura del Sessantotto da una prospettiva eversiva, il superamento del marxismo classico e la formulazione di una teoria progressiva. Sono le tematiche sviscerate in Fenomenologia del soggetto generazionale (nell’era del capitalismo cibernetico), lo scritto che avrebbe destato scalpore nei dipartimenti di filosofia di mezza Europa». Nel suo romanzo-saggio Museo del Romanzo della Eterna lo scrittore argentino Macedonio Fernández metteva in guardia i colleghi riguardo ai pericoli di rappresentare un personaggio di genio senza dominarne la disciplina d’elezione (si pensi alla querelle tra Mann e Schönberg); Bitetto risolve l’impasse allontanando il suo personaggio dagli archetipi e rendendolo allegorico.
Il tentativo di sottrarsi alla contemporaneità ricorda l’attitudine dell’austriaco Thomas Bernhard, del quale, secondo qualcuno, Bitetto dominerebbe «le architetture e gli stilemi più che gli assoluti romanzeschi»; la simpatia di Bitetto per Bernhard è suggerita anche da una menzione nel testo e dal titolo bernhardiano del suo racconto nell’antologia Quindici declinazioni di un sentimento (effequ, 2017), a cura di Gabriele Merlini: Sedimentazione. In realtà, il debito con Il soccombente si esaurisce nel presupposto della narrazione, e così quello con la prosa ossessiva di Bernhard, ben lontana da quella di Bitetto. Inoltre, se si prendono in considerazione altri tre romanzi dedicati all’amicizia conflittuale tra intellettuali, come Gli inquilini (1971) di Malamud, Il dono di Humboldt (1975) di Bellow e L’informazione (1995) di Amis, si nota che il tema è stato spesso trattato con una certa ironia, meno evidente in Scavare (fatta eccezione per il titolo La contemplazione della merda). Certo, si possono trovare divertenti le critiche ampollose rivolte dal filosofo allo scrittore: «Me lo dicesti chiaramente: ti sembrava un polpettone piccolo-borghese. […] Non potevi tollerare duecento pagine di macchinazioni egotiche, non digerivi la morbosità psicanalitica, l’arido florilegio di cinismo»; eppure alcuni lettori potrebbero interpretare come enfatico e serioso il trattamento di una questione affascinante ma elitaria qual è l’amicizia tra intellettuali; questa molteplicità dei piani di lettura non fa che arricchire l’opera.
Romanzo stratificato e consapevole, leggibile sia come riflessione critica sia in quanto storia, Scavare è un esordio che mira in alto, lo fa con l’eleganza di una prosa classica e riesce a centrare buona parte dei suoi obiettivi, e non c’è dubbio che Bitetto abbia le carte in regola per affermarsi anche come romanziere.