recensione di Alice Pisu
Giorgio Terruzzi
Atlante sentimentale
pp. 317, € 18
Rizzoli, Milano, 2021
L’intento è svelato sin dalle prime pagine. Un invito a scoprire luoghi e storie d’Italia tra scorci pittoreschi e bellezze decadenti, ritratti di eroi fantastici e di eroine involontarie, rivoluzioni e miti che travalicano le epoche, e arrivano a chi oggi le indaga, con una curiosità che si nutre di ricordi. Giorgio Terruzzi attraversa quaranta destinazioni, ne ridefinisce le icone per compiere un esperimento: affiancare alle immagini del mito, dell’arte, della musica, dello spettacolo, del cinema, dello sport, le figure marginali, le storie di visionari esclusi, per tracciare una mappa sensibile. Partire come dividere, dividersi, abbandonare ogni protezione per invocare uno smarrimento. Le mete sono concepite dall’autore come l’esito della stratificazione di un remoto racconto collettivo investito da personali apparizioni che segnarono la sua formazione umana e professionale. Manuale di esplorazioni per provare a scorgere il sentimento dei luoghi, Atlante sentimentale rivendica l’incompletezza nella sua natura anarchica, a partire dal percorso scomposto che ha come partenza e approdo finale a Milano. Gli squarci come attese, attraverso cui Lucio Fontana invocava una liberazione dalla schiavitù della materia, accompagnano lo sguardo su luoghi e storie per diventarne la premessa necessaria. Sono le intermittenze della memoria, lo spazio vuoto del mistero che il fascino di ogni storia narrata racchiude a cadenzare il passo di una narrazione velata da una sottile malinconia, quella che come scrisse Marino Magliani è un liquido che allaga le terre riarse. “Prima, molto prima di vedere il mare, percepisci che al mare sei prossimo. Il mare di Rimini, intendiamoci. Evocato da segnali di un entroterra previsto. Cartelloni mirabolanti, incroci tra frasche e resti di prostituzione notturna, strade dritte e luce bianca, alta all’orizzonte. Anziani in bicicletta. Canottiera, braghe corte blu. Bici da donna, quasi sempre, per una prima immagine da cinematografo, da Amarcord”.
Il sapiente tratteggio di toni cupi e luminosi assegna una forma a vicende che possono essere comprese solo interrogandone i luoghi che ne furono il teatro, tra moli concepiti come prolungamento di cortili privati, campi piatti, sbuffi di vapore, spettacolari declini di remoti fasti, suggestioni infantili di un incanto. Sono le sottili ossessioni a tracciare in tale narrazione sentimentale il racconto atipico dei luoghi forgiato dalla meditazione sul tempo, dal gioco di ingrandimenti sul passato. Esplorazioni letterarie e fisiche che rivelano tra gli scorci e i volti che sfilano sulla pagina gli esiti di un esperimento inedito sulla terra, sull’esilio, sui confini, sulle origini, sulla geografia. E se, come sosteneva Calvino ne Le città invisibili, non bisogna confondere la città con il discorso che la descrive, occorre rivendicare in ogni incursione una misura di indeterminatezza e incompletezza per modellare l’itinerario anche attraverso una buona dose di imprevedibilità. Terruzzi si pone in ascolto di luoghi solo all’apparenza muti, come nel viaggio a Roncole Verdi, tra “case quante le dita di una mano, facciate color paglia, persiane scure, dal nero al marrone”, dove “l’aria del Nabucco è una carezza della memoria, risuona tra l’edicola e il bar con i tavolini fuori, per chi non si sa”. Le perlustrazioni trovano una traduzione sensibile nel groviglio delle esperienze private, delle visioni collettive e delle apparizioni improvvise. Il lettore diventa parte integrante dell’itinerario, fa parte di quel “noi” che accomuna generazioni di miserie e glorie, e finisce per concepire come inevitabile la lentezza adottata.
Le tappe diventano nomi, rivendicano segnali, custodiscono rimpianti. L’esperienza del disorientamento regala intuizioni su Corto Maltese a Venezia, consegna i tracce di Eleonora Duse, Caterina Corner, Freya Stark a Asolo per inventarne la complicità. Affascinato dagli eccessi, l’autore indaga lo scarto rispetto al privato, e rivela aneddoti e scoperte. Racconta l’impegno di chi, come Ondina Valla, contribuì in maniera determinante a mutare la percezione dello sport al femminile, di chi entrò nella mitologia sportiva mostrando, come Tazio Nuvolari, la volontà di “battersi allo spasimo, per cadere e risorgere”. Individua due volti all’apparenza opposti per raccontare Napoli, quella di Agostino ‘o pazzo e di Diego Armando Maradona, in una strana e perfetta armonia. Un’iperbole di celebrità e un mito che concorrono a comporre la stessa narrazione popolare fondata sul miraggio, il sogno, la promessa, l’abbandono alla suggestione. Bifronte anche l’amata Bologna, che risplende tra continui flashback nelle istantanee di Lucio Dalla accanto a quelle della campionessa olimpica dal nome preso in prestito da Le mille e una notte. “Ho davanti, ora, i dettagli urbani di quell’epoca nostra, i nomi delle strade, di osterie scomparse. Il totem imbrattato in piazza Verdi, pasta al burro e oro in mensa, spezzatini tutti nervi. Sono scansioni di un mutamento collettivo, di un passaggio spinoso”. L’appartenenza e l’identità si fanno suono e danno voce a una materia silente, come insegna Pinuccio Sciola, che Terruzzi sente ancora vagare tra i vicoli della sua San Sperate. Diventano il passo inquieto e tormentato di una catarsi collettiva tra i mamuthones e gli issohaores di Mamoiada. Traducono i silenzi di Tonino Guerra nel santuario dei pensieri in Alta Valmarecchia dove le fiabe sono “fiori dello stesso campo”. Sono le continue deviazioni, i luoghi nascosti, i segni di un passato fulgido e dolente, i versi sofferti depositati su una finestra anonima affacciata su una piazza, a nutrire le storie che si innestano a quella principale e rivelano l’urgenza di un riconoscimento. Gli incontri lungo il cammino – da Beppe Fenoglio sull’etica e la responsabilità, a Don Milani sull’inclusione sociale e Maria Montessori sull’educazione alla libertà – consegnano un monito che diventa il senso della peregrinazione e della sua cronaca: sollevano questioni, richiamano la fedeltà a un impegno, ricordano il senso dell’integrità. Con Atlante sentimentale Terruzzi osserva quel che rimane e che può contribuire a rifondare l’immaginario. Interroga un ulivo centenario, l’inconsapevole emblema di un viaggio tra quel che di ostinato resiste all’oblio. “Il passo, una volta compiuto, non consente ritorno, disorienta la propria integrità, sconvolge l’innocenza, dopo che ogni energia è stata spesa per perseguire quella stessa fede, per dare vigore al sogno”.