di Mauro Maraschi
Giordano Tedoldi
NECROPOLIS
pp. 248, € 21
Chiarelettere, Milano, 2019
Al suo terzo romanzo, Giordano Tedoldi si conferma un unicum nel panorama letterario italiano per temi, consapevolezza e percorso autoriale. Classe 1971, nel 1999 partecipa a “Ricercare – Laboratorio di Nuove Scritture”, nato per il trentennale del Gruppo 63. Poco dopo pubblica diversi racconti sulla rivista “Il Maltese”, uno dei quali confluisce nel suo esordio, Io odio John Updike (Fazi 2006, minimum fax 2016), anche se già due anni prima Steinbeck, incluso nell’antologia La qualità dell’aria insieme a testi di Cognetti, Covacich, Pincio, Trevi e altri, gli era valso una certa attenzione. Eppure, se si esclude Deep Lipsia (auto-pubblicato nel 2012), bisogna aspettare sette anni per l’uscita del primo romanzo; applaudito dalla critica e oggetto di un piccolo culto, I segnalati (Fazi, 2013) racconta di una giovane coppia coinvolta nel decesso di un ragazzino: un’opera colta, morbosa e perturbante. Quattro anni dopo è il momento di Tabù (Tunué), forse più ineffabile e nero del precedente. Ma se tra i primi due romanzi si percepiva una certa distanza, benché percorsa in una direzione precisa, adesso Necropolis stacca entrambi di diversi secoli. La scrittura si è asciugata, rinunciando in parte all’autoindulgenza; rimane evidente l’abile gestione del registro, a volte disturbato da interferenze verso l’alto o il basso, altre impreziosito da un hapax legomenon, un vero e proprio marchio di fabbrica, così come lo sono le “invenzioni che potrebbero non esserlo”, dettagli storici, archeologici, antropologici o esoterici (come in passato il Regina Nigra o il liquor filialis) contestualizzati in modo tale da suscitare il dubbio che, per quanto surreali, in qualche biblioteca dovrà pur esistere un tomo che ne parli. La sensualità ha ceduto il passo alla rappresentazione dell’eros come sinonimo di sofferenza (vedi la condizione della “semidonna” Andrea).
Se le opere precedenti si aprivano con un’ambientazione realista, per accompagnare gradualmente il lettore nel caos, stavolta l’ibridazione di antropologia, esoterismo e fantastico è costante: Necropolis impone fin da subito una dimensione altra, posteriore alle contingenze politico-sociali attuali e pertanto epurata dai vizi interpretativi della contemporaneità; ancora una volta l’indifferenza ai temi mainstream lascia spazio a scorci su argomenti scomodi come la pedofilia (già nei Segnalati) e l’odio per i preti (già in Tabù: «Padre, vi odio. Siete malati e andreste curati»), che qui convergono ferocemente. All’autore non è mai mancata una vena umoristica, ma stavolta ci imbattiamo in gag esplicite («I tatuaggi servono all’evocazione?» / «No, mi piacciono»), gigionerie che funzionano da sporadici contrappunti al tetro onirismo dominante e persino qualche provocazione diretta al lettore («Il pubblico, va concimato!»). Le digressioni filosofiche non sono gratuite e alimentano gli eventi; tema centrale, oltre alla morte, è il suicidio («nessuno si suiciderebbe se non ci fossero gli altri»), con alcune concessioni “politiche” come il rifiuto del libero arbitrio.
Ma la storia qual è? Riassumere le trame di Tedoldi non è facile, ma stavolta è quasi impossibile. Non mancano legami di causa ed effetto, dialoghi, personaggi e altri requisiti della narratività, ma la presenza di questi elementi è funzionale all’obiettivo principale: suscitare nel lettore uno straniamento del tutto inedito attraverso la messa in scena di un universo coerente soltanto a se stesso. Per capirci: il libro si apre con tale Maresciallo Yarden che intraprende un viaggio attraverso le due Necropoli esistenti (quella Est e quella Ovest, ideologicamente opposte) per decidere dove farsi seppellire; al suo seguito, il giovane Rama, l’«assistente» Pierre e il negromante Max; dopo tre evocazioni in cerca di una profezia post-eventum, eseguite mediante un rituale definito, il lettore si è ormai illuso di aver capito il meccanismo e di trovarsi in un horror filosofico, quand’ecco che Rama sparisce e Yarden si ritrova in una stanza che riproduce il suo passato. Da questo momento in poi, a ogni capitolo, non si fa in tempo a comprendere uno scenario che ne è già subentrato un altro (anche se lo spettro degli eventi persiste sotto forma di esperienza, malessere e minaccia).
Tutto è mutevole, non c’è uno dei comprimari che non riveli una seconda natura, ed è vero che, da un certo punto in avanti, il viaggio può essere definito lisergico (come suggerisce la copertina del Dr. Bad Trip). Parte del divertimento deriva proprio dalla difficoltà di razionalizzare il coinvolgimento: da un lato prevale l’istinto di aspettarsi una spiegazione, dall’altro il desiderio di scoprire fino a che punto ci si può emancipare dalla logica dominante a favore di un’esperienza quasi passiva. Anche perché il punto d’arrivo lo si conosce già, ed è la morte: tutti i personaggi di Tedoldi sono dei predestinati e Yarden non fa eccezione, anzi, si mostra consapevole di questa condizione, a tal punto da interessarsi soltanto al luogo ideale per la propria sepoltura. Ma se è vero che la sua è una catabasi, abbinare l’aggettivo “dantesco” a un romanzo filosofico del 2019 può essere un atto di pigrizia.
Necropolis sembra costruito nel tentativo di risultare impermeabile al giornalismo culturale e di proiettarsi verso analisi future, più complessive e sedimentate di quelle previste dal mercato editoriale. Può essere ascritto al “new weird” (ma non al filone distopico), può richiamare Viaggio tra i morti di Ionesco (per il parallelo tra Jean e Konrad, e per la ricerca della madre), le atmosfere lugubri dei racconti di Hawthorne, In tempo inverso di Dick (per la familiarità con la morte, così come la “Visione Collettiva” fa pensare alla scatola empatica di Ma gli androidi sognano pecore elettriche?), Cancroregina di Landolfi (per le descrizioni futuristiche), Il sogno di un uomo ridicolo di Dostoevskij («Mi domando quando tutta questa Necropoli svanirà. Sarà certo a causa di un vizio, un piccolo vizio che si trasmetterà alla velocità del pensiero nel popolo») o i romanzi d’avventura (anche se nel Giro del mondo in 80 giorni non c’è nessuna mongolfiera); nessun esercizio di accostamento, però, contribuisce a una comprensione più profonda del testo. Tedoldi, che ha interiorizzato i suoi antichi maestri fino a eliminarne ogni traccia, riesce nell’intento di spingere la critica (che sempre «fraintende positivamente o negativamente») a subordinare le questioni di gusto al riconoscimento del valore di un’opera in termini di unicità e ricerca. Se poi si aggiunge che Necropolis intrattiene dall’inizio alla fine, e che si conclude con un monologo-confessione particolarmente ispirato, allora i motivi per accompagnare il Maresciallo Yarden nel suo viaggio sono davvero tanti.
M. Maraschi è editor e traduttore editoriale