Collegi di corda
di Franco Pezzini
Gerry Mottis
Domenica Matta
Storia di una strega e del suo boia
pp. 336, € 20
Gabriele Capelli, Mendrisio (Svizzera) 2021
Da quando, in età moderna, la stregoneria è diventata oggetto di studi laici, non sono mai mancate riscritture sul tema di tipo romanzesco: e i motivi sono ovviamente vari. Da un lato il tema concede al narratore potenti possibilità visionarie e insieme di accostare drammi umani in modo più empatico che attraverso un registro asciuttamente saggistico; da un altro punto di vista, l’operazione è agevolata da documentazioni processuali spesso puntuali, che aprono preziosi scorci sul passato e il recupero di voci quasi sbobinate nella loro angosciata freschezza. Ciò che resta ovviamente sfuggente è quanto a fondo le confessioni rese offrano dati convincenti su credenze popolari (in alcuni casi sì, per l’evidente alterità di alcune categorie – si pensi ai benandanti –, altrove è più difficile distinguere), e quanto invece sia frutto di strappi – anche in senso tristemente materiale, per l’uso degli atroci “collegi di corda” – verso le categorie degli inquisitori. Il che ovviamente rappresenta un problema per una ricostruzione romanzesca: al netto di una vulgata moderna, che ha disinvoltamente traghettato cattivi inquisitori e streghe perseguitate nella narrativa di genere, romanzi che si presentino come storici e non soltanto “in costume” devono fare i conti con tali problematiche ambiguità. Una prova interessante per riflettere su tutto questo è offerta dal “Romanzo storico” (come sottolineato in copertina) di Gerry Mottis, Domenica Matta. Storia di una strega e del suo boia, edito dall’editore svizzero Gabriele Capelli di Mendrisio (nei fatti sequel di Terra bruciata. Le streghe, il boia e il diavolo dello stesso autore per gli stessi tipi, 2017), su un’autentica vicenda processuale consumatasi nel 1616 nella futura Svizzera italiana. Un caso molto particolare, quello della povera Domenica, soggetta a processo per ben due volte (prima da bambina, dall’Inquisitore di Carlo Borromeo, e poi da adulta), e che tuttavia rappresenta solo uno degli innumerevoli registrati da documenti d’archivio nelle valli alpine elvetiche.
La narrazione dipana con grande attenzione ai dettagli storici – quelli noti dai documenti e quelli credibili per studi microstorici – le vicende parallele di Domenica e del carnefice Kasper Abadeus (già conosciuto nel romanzo precedente di Mottis), modellato con un occhio al profilo di un altro boia storico, Mastro Titta, i cui appunti serviranno per una biografia apocrifa. Va da sé che un carnefice svizzero del primo seicento e uno della Roma papalina dell’ottocento presentino connotati culturali molto diversi, per cui l’ispirazione resta di necessità vaga: e la parte su Abadeus – che non è un sadico, ma un uomo del suo tempo che non giudica il tipo di funzione cui è deputato ma conosce dimensioni di umanità inusuali, anche grazie a una figlia adottiva dolcissima – è forse quella che risente più direttamente degli stilemi di una narrativa di genere. Mentre la storia di Domenica emerge dalle carte che Mottis presenta in Appendice, Processo contro Domenica Matti di Roveredo. Interrogatorio e sentenza, 1616: dove in effetti la problematicità sovraccennata sulle credenze popolari (emblematico nel romanzo il ruolo di due amiche di Domenica poi condannate come streghe) si stempera nel caso della protagonista, lasciando al lettore la netta sensazione di forzature legata all’utilizzo della tortura. Pensiamo all’appello di Domenica ai magistrati: “Non mi fate dire piu il falso, ex se dicit Iddio vi perdoni di quanto mi fate dire”. O a questo dialogo, dove il condizionamento dell’imputata verso modelli premasticati è evidente: “Ei dicto come era fatto questa demonio, era grande o picolo. / Risp.: Era grande. / Ei dicto: che cosa haveva in testa. / Risp.: Non haveva cosa alcuna. / Ei dicto come haveva le mani, et piedi. / Risp.: Come noi altri. / Replicata l’interroganza. / Risp.: Haveva li piedi come le capre”. O ancora: “Ei dicto che atti uso teco quel moroso (n.d.r. il diavolo). / Risp.: Diro quello che hanno detto li altri”.
Al netto delle inevitabili difficoltà di ricostruire ritratti di figure popolari di una zona montuosa depressa nel Seicento, vessata oltretutto da calamità naturali, accidenti “inspiegabili” e ignoranza diffusa (come possono essersi salvati dalla frana solo i figli di quella donna?), le ricostruzioni nel romanzo del profilo psicologico di Domenica e di altre donne risultano così nel complesso credibili. E la narrazione, specie dove è più asciutta, permette di porsi in buona sintonia emotiva con gli antichi drammi. Dove due aspetti spiccano, e pare utile non perderne gli echi a distanza di quattro secoli. Da un lato il peso assassino di una cultura patriarcale che carica con disinvoltura sulle donne non solo l’assoggettamento materiale ma la criminalizzazione di eventi naturali come patologie degli animali, calamità, malattie: le stesse funzioni di cura (tramite erbe medicinali eccetera) legate agli unici scampoli di un’identità sociale riconoscibile finiscono con l’esporre a rischi mortali nel travisamento dello spirito delle relative pratiche. Riflessioni che restano provocatorie tanto più a considerare come la caccia alle streghe non si sviluppi tanto nel “buio” medioevo da cui smarcarsi scandalizzati, quanto all’inizio dell’età moderna. In termini di attenzione agli studi di genere, è insomma prezioso che si continuino a studiare gli atti dei processi di stregoneria, e che il risultato raggiunga il grosso pubblico anche tramite romanzi.
Ma c’è un secondo aspetto. Storie come questa fanno riflettere sulla facilità di costruire paradigmi incriminatori per esponenti di culture non allineate a quella dominante. A prescindere da una loro dimostrata pericolosità, o meglio sulla base di una pericolosità presunta in termini fortemente discutibili, e almeno altrettanto mitologici. Dove in questione non è che “abbiano ragione” (la cultura delle istituzioni d’epoca, dove una serie di studi scientifici stanno progredendo, resta comunque più prossima a quella del pensiero moderno del remoto mondo magico di Domenica e delle sue amiche) né la modalità delle sanzioni (le più varie), ma il livello di livorosa ostilità verso i disallineati. Un caveat su una certa facilità di scatenare rancori sociali e discriminazioni rabbiose verso categorie più o meno definite o definibili (cinesi o runner a inizio pandemia, no-vax o russi) che può meritare almeno qualche riflessione coi tempi che corrono.