recensione di Matteo Moca
Fuani Marino
SVEGLIAMI A MEZZANOTTE
160, € 17
Einaudi, Torino, 2019
«La dinamica dell’impatto mi sfugge, e hanno fatto sì che mi restasse ignota. Posso solo dedurla, in base alle lesioni riportate. Immaginarla a partire dall’ultima cosa che ricordo, ovvero che volevo morire. Morire era il mio ultimo desiderio». Così racconta Fuani Marino, nella prime pagine del suo libro, il suo impatto con il terreno, il suo tuffo da una palazzina, il suo tentato suicidio. Come un «sacco nero» appare il corpo della donna che cade, o almeno questa è la percezione della signora del secondo piano che vede sfilare qualcosa dalla sua finestra: «Il mio corpo, fasciato da leggins e maglietta scuri, complice la velocità nel volo di dodici metri, le era sembrato un sacco della spazzatura». Svegliami a mezzanotte è il racconto autobiografico di una giovane donna, all’epoca del fatto da poco madre, che narra il suo tentato suicidio: il libro è mosso, soprattutto, dal desiderio di provare a capire quel gesto, di tentare di ritrovare le origini di quella scelta attraverso i segni che il suo corpo porta. In queste pagine confluisce, nella sua interezza e nei suoi caratteri più intimi, l’autrice, che ricostruisce non solo la storia della sua depressione, ma anche i tentativi della letteratura di raccontare la bipolarità e la solitudine, situando la sua narrazione continuamente in bilico, tra il racconto e la saggistica, tra la salute e la sofferenza, tra la possibilità di dire e l’incomprensibilità dei processi mentali.
Questo libro però, soprattutto per la sua funzione conoscitiva che si attesta su un trascorso e sulle sue conseguenze sul presente, ripropone una questione centrale della letteratura, inerente a una domanda originaria, quella sul perché si scrive. In uno suo celebre scritto, Il poeta e la fantasia, Freud sottolinea come l’origine dell’attività poetica risieda in un sentimento di insoddisfazione, di frustrazione del desiderio: la scrittura, e non solo quella, ma anche il sogno o l’arte, è un meccanismo che cerca di sopperire a questa mancanza e di riallacciarsi con intensità all’aspirazione di esprimere se stessi e il proprio disagio. Freud è presente nel capitolo che Marino dedica ai suoi studi universitari di psicologia a Roma, in fuga dalla natia Napoli e dalla famiglia, in cerca di una lontananza che potesse tramutarsi in pace, anche se non sarà proprio così. Mentre ripercorre le tappe dei suoi studi, in un capitolo dove gli spunti autobiografici sono mescolati con grande abilità alla costruzione del ritratto della psiche della scrittrice, Marino scrive di come avesse molto apprezzato di Freud la celebre contrapposizione tra Eros e Thanatos, «a suo dire presente in ciascuno di noi e su cui si fonderebbe l’equilibrio psichico», per la sua capacità di «riscoprire l’importanza dell’istinto di morte come impulso primordiale della vita psichica». Non si è forse in grado di dire se una lettura che prediliga la chiave psicoanalitica sia nel caso del libro di Fauni Marino la migliore: certo è che la stessa struttura del testo sembra assecondare un tentativo simile, supportato anche dai numerosi riferimenti ai processi della mente e ai movimenti della psiche. Il libro infatti, dopo la prima parte dedicata al tentato suicidio, si divide in tre parti, Prima, Caduta, Dopo: nella prima di queste si assiste a una regressione dell’autrice che torna ai suoi anni di bambina, di adolescente e di giovane studente di psicologia. Questo procedimento a ritroso ha la funzione di ricostruire la storia che sfocia nel tentativo di suicidio e rintracciarne, come detto, le cause: lo stesso Freud però ha insegnato che la memoria non si limita a una ricostruzione oggettiva, virando piuttosto verso una riscrittura della propria storia, in poche parole il passato si forma attraverso il presente e si trasforma ancora di più attraverso il meccanismo della scrittura. Risalta però come il tentativo di Marino, nel suo spirito più profondo che rifugge dal desiderio di creare sorpresa o sottolineare un’eccezionalità, appaia al lettore come una sincera descrizione della inquietante normalità della depressione.
Svegliami a mezzanotte è un libro che parte da un vuoto, quello della caduta, e che da lì tenta di indagare la sua storia. Particolarmente emblematico è il fatto che la parte centrale del libro, Caduta, si presenti, a differenza delle altre, composta da un’unica frase: «E poi sono caduta, ma non sono morta». Il bianco della pagina, il bianco di un capitolo pressoché vuoto, è il simbolo della tendenza precipua della scrittura di Marino: per scrivere la propria storia è necessario partire da un’assenza di storia, assenza rappresentata nel libro anche dalle prime settimane trascorse in ospedale in uno stato di mancanza, ma per attraversare e conoscere questo spazio bianco la scrittrice si scontra continuamente con qualcosa di inaccessibile, difficile da conoscere e quindi da raccontare e da scrivere. Ecco che allora Svegliami a mezzanotte è anche la testimonianza di un tentativo di interpretazione di questa spazio inconoscibile e una grande prova di fiducia nei confronti del mezzo letterario (rappresentato non solo dallo stesso esercizio della scrittrice, ma presente anche attraverso i numerosi riferimenti letterari e scientifici che abbondano nel testo senza mai appesantirlo, perfettamente amalgamati con la materia originale), un mezzo letterario qui piegato ed elaborato per essere trasformato in eccezionale strumento di conoscenza.
Matteo Moca