di Massimo Vallerani
I temi maggiori del numero di maggio sono due: l’incontro con l’altro e la messa in discussione dell’identità; la memoria e il racconto, la possibilità di scrivere la vita degli altri. Più volte questi due fili si intrecciano creando una continua compenetrazione di temi, una tensione inevitabile fra la definizione di sé e la memoria scritta.
Il primo filone inizia con un lungo saggio di Adriano Prosperi sull’Europa e la coscienza dell’alterità. Prosperi è uno dei maggiori storici dell’età moderna, e con grande sapienza ricostruisce le linee profonde che hanno guidato i contatti dell’Europa con l’altro, dalla scoperte delle nuove terre in avanti. Certo, lo spirito di conquista ha guidato gran parte dei progetti di inquadramento dei nuovi territori oltreoceano, ma esiste anche un approccio meno violento, volto alla conoscenza e alla possibilità di comprensione dei mondi altrui, un mondo di storie connesse senza conquista, che traspare, per esempio, dai diari di viaggio dei gesuiti in missione nelle terre d’oriente fra XVI e XVIII secolo: una traccia di un modello di apertura che l’Europa ha in qualche modo mantenuto, oggi minacciato dall’onda reazionaria che impone chiusure i nome di una sovranità oscura e illiberale. La storia comunque ci consegna un’Europa mobile, priva di quella monolitica identità immaginata dai suoi attuali e interessati difensori.
E sull’identità e le sue alternative si incentra il Primo piano dedicato al libro di un grande antropologo, Francesco Remotti, Somiglianze una via per la convivenza, Laterza editore. Remotti aveva già attaccato duramente le teorie identitarie – e il concetto stesso di identità – come qualcosa di “innato” e immodificabile; al contrario l’identità è un oggetto continuamente e fittiziamente costruito, il risultato nefasto di tagli continui, di separazioni dolorose. di semplificazioni brutali dell’intrico di relazioni possibili in cui siamo immersi. Da qui la ricerca di un altro paradigma, quello delle somiglianze, della somma di “somiglianze e differenze” che ci tengono intrecciati agli altri, necessariamente collegati ad altri e che dobbiamo, con fatica, ordinare nelle nostre menti e nelle nostre vite. È questa la dimensione reale del tessuto quotidiano delle nostre esperienze: abbiamo a che fare con “simili”, non con “identici”, siamo portati a condividere necessariamente idee e cose con persone vicine, ma anche diverse, con le quali non è sufficiente solo coesistere, ma è necessario convivere. Remotti ci invita, in sostanza, a tornare a guardare il mondo come è, a prendere coscienza che le vite non si tagliano ma si intrecciano e che l’individuo deve rinunciare alla sua natura singola, per assumere i tratti delle relazioni che intrattiene.
A questo tema possiamo collegare un altro segnale importante di Giuseppe Sertoli dedicato alla traduzione di un racconto di Conrad, Amy Foster. È un racconto quasi “profetico”: la storia di un contadino dei Carpazi, Yanco Gooral, che si imbarca per un paese migliore e naufraga sulle coste inglese, iniziando una vita da profugo; dai contadini del luogo sarà trattato come un diverso assoluto, una sorte di animale selvatico, salvo che dalla buona Amy Foster che prima lo cura e poi lo sposa, per allontanarsene quando sente Yanco cantare al figlio un canzoncina in una lingua a lei sconosciuta. È un racconto sull’irriducibilità delle diversità, sulla rinascita, a dispetto delle intenzioni inziali, del senso di lontananza e di sospetto ingenerato da una lingua straniera che improvvisamente ri-precipita il soggetto nel buio della distanza non conoscibile.
Anche il segnale sulla Germania ricorda l’imperfezione delle saldature culturali fra le due metà riunificate nel 1989. Roberto Valle esamina la letteratura successiva alla caduta del muro per mettere in luce la crisi di una reale possibilità di creare una letteratura tedesca. Permane un senso di straniamento che si avverte anche nel bel romanzo di Clemens Maier, Il silenzio dei satelliti, (editore Keller di Rovereto), recensito da Anna Chiarloni: nove racconti sul degrado urbano nella Germania orientale post-riunificazione, quando le caserme vuote dell’esercito sovietico furono riempite di immigrati da tutta Europa dell’est (ora fieramente antimigranti); ebbene la prima grande crisi tedesca fu dovuta proprio al rifiuto di questa prima ondata di migranti e dalla formazione di una corrente interna di giovani tedeschi dell’est che migrano nella parte ovest. Una prospettiva globale presenta invece la recensione di Massimo Livi Bacci, uno dei massimi demografi italiani, a un libro collettivo Dall’Africa all’Europa, a cura di Daniele Frigeri e Marco Zupi, Donzelli editore. Ancora una vicenda di “mondi connessi”, per riprendere l’espressione usata da Prosperi, perché come il libro ben illustra, le migrazioni in Europa sono in relazione stretta con le migrazioni interne al continente africano, queste sì sconvolgenti in seguito al fallimento degli stati come Sudan, Somalia, Libia che hanno provocato milioni di sfollati interni (le Internally displaced persons secondo il linguaggio asettico dell’Onu). Questo enorme insieme di persone è il cuore delle correnti di spostamenti interne ed esterne al continente africano, da cui dipendono, per ora in quote minime, anche le migrazioni verso l’Europa.
La seconda linea di lettura prende le mosse dal libro del mese, un libro doloroso e bellissimo dello scrittore russo Anatoli Kuznecov Babij Jar (Adelphi editore). Babij Jar era (è) un fossato alle porte di Kiev usato dalle truppe tedesche come luogo di massacri continui, un’enorme macello a cielo aperto dove state massacrati di più di trentamila ebrei di Kiev in soli due giorni e poi altre decine di migliaia di persone, prigionieri russi, membri del partito comunista, abitanti di Kiev accusati dei reati più strani secondo la follia dell’amministrazione tedesca di Kiev, “liberata” dai sovietici. Il romanzo-documento di Kuznecoz è però un’opera singolare, irriducibile a un genere: scrittore di successo nell’epoca della de stalinizzazione, Kuznecov ha cercato di pubblicare il romanzo a puntate contro i tagli enormi e i travisamenti altrettanto forti della censura sovietica; scappato in occidente nel 1969 Kuznecov si era portato i microfilm del romanzo originale lo ripubblica senza censure nel 1970. Il libro è un crocevia di tragedie, che Kuznecov si incarica di ricordare e di consegnare alla memoria come atto necessario del suo essere scrittore; da qui la fuga per rivendicare la libertà della sua scrittura; da qui anche una sorta candore esplicitamente rivendicato dall’autore quando ricostruisce la sua memoria di testimone-bambino dei massacri di Babij Jar e della vita a Kiev sotto l’occupazione tedesca, con tutte le contraddizioni e le illusioni tragiche di una popolazione ostile ai sovietici, illusa dai tedeschi, sterminata dalla guerra e dimenticata dopo la guerra. Certo sono orrendi gli abitanti di Kiev indifferenti al massacro della comunità ebraica, rapidissimo eppure da tutti conosciuto; come odioso è il nonno di Anatoli, entusiasta dell’occupazione tedesca che aveva “liberato” la città dai sovietici. Ma tutti finirono vittime della guerra, schiacciati da un’occupazione tedesca che usava lo sterminio come sistema ordinario di governo. Uno sterminio che gli stessi tedeschi hanno cercato coscientemente di cancellare disseppellendo e poi cremando migliaia di cadaveri sepolti nelle fosse di Babij Jar. Il silenzio è stato conservato anche sotto il nuovo regime sovietico che ha fatto di tutto per occultare il luogo e i fatti lì avvenuti, fino alla riscoperta nei primi anni sessanta della fosse, dei resti umani, della strage commessa negli anni, che divenne famosa anche grazie a una bellissima poesia di Eutschenko condotto sui resti del vallone di Babji Jar proprio da Kuznekov.
Memoria che si fa racconto, come missione dello scrittore contro l’oblio e contro la censura. Tensioni che troviamo in un altro libro – recensito da Laura Scarabelli nello speciale dedicato al Salone del Libro – del messicano Julian Herbert, La casa del dolore degli altri, che cerca di ricostruire un massacro della comunità cinese di Torrèon, nel nord est del paese, avvenuto durante la rivoluzione messicana del 1911; 303 vite interrotte dalla follia xenofoba e separatista della rivoluzione, utili forse, a capire la follia omicida del Messico odierno.
Sulla possibilità di narrare le vite altrui si possono intrecciare altri pezzi di questo numero. Un bel segnale sulla biografia di Lisa Roscioni, che fa il punto sul dibattito accesissimo sulla possibilità e l’utilità della biografia dei personaggi famosi, partendo dalla contrapposizione fra la gigantesca biografia di Flaubert scritta da Sartre, e la parodistica ma illuminante biografia di tre vite dello stesso Flaubert di Julian Barnes. La biografia ritorna nella recensione a un altro libro-inchiesta, Eugenia di Suzanne Falkiner, la storia di una donna di origini italiane emigrata in Nuova Zelanda che si finse uomo per anni, lavorando come un uomo e sposando una donna del luogo, Annie Birkett trovata morta qualche tempo dopo. Accusata dell’omicidio della moglie, Eugenia, ormai scoperta, non poté sfuggire alla condanna all’ergastolo, senza mai ammettere il delitto.
In tutti e due i casi, ma direi in tutti i libri che abbiamo esaminato, il tema dell’identità viene messo in discussione, si declina in modo complesso, in vite complicate da relazioni a più livelli, di “somiglianze”, appunto, che intrecciano la nostra esistenza con quelle degli altri secondo le capacità di creare intrecci vitali o al contrario scelte di morte. Come direbbe Remotti, “la convivenza è una qualità strutturale della vita”, ma dipende da noi capre quali vite intrecciare alle nostre e come. Di tutto questo la scrittura, non solo la letteratura, deve riuscire a dar conto. Questo numero si è costruito come un omaggio spontaneo agli autori che ci hanno provato.
Massimo Vallerani è condirettore dell’Indice