L’irresolutezza della violenza
di Matteo Fontanone
Fabio Bacà
Nova
pp. 279, € 19,
Adelphi, Milano 2021
Nei modi e nelle convenzioni della società occidentale, solitamente regolata dai compromessi e dal dialogo, dal rancore o al limite dall’aula di un tribunale, allo sfogo della violenza è stato tolto ogni spazio di agibilità. Abbiamo anestetizzato la violenza quotidiana e animalesca che cova dentro di noi, eppure non siamo mai stati tanto abituati come in questi anni alla sua rappresentazione. In quanto pubblico non ci facciamo neanche più caso e quando diventa pornografia ne siamo quasi sedotti, ma in quanto cittadini, suggerisce Fabio Bacà nelle pagine iniziali del suo secondo romanzo per Adelphi, non siamo più attrezzati a fronteggiare le sue pur rare emersioni. È proprio a partire da questo scacco che prende forma, nel prologo, la filosofia di Nova: nel 2013 un ghanese di nome Adam Kabobo uccise a picconate tre sconosciuti e ne ferì diversi altri nel quartiere milanese di Niguarda. Non aveva motivi validi, se non le voci che sentiva in testa. Ancor prima di presentarci personaggi e ambientazione del libro, Bacà si sofferma su un dato di quella notte parecchio difficile da interpretare: nessuno, tra chi è riuscito a sfuggire alla furia di Kabobo, ha pensato bene di chiamare la polizia per denunciare l’aggressione e fermare l’assassino a piede libero per la strada. Sono semplicemente andati avanti come se nulla fosse accaduto. Degenerazione dei tempi, individualismo, vuoto pneumatico di moralità? No, è solo che “la maggior parte delle persone non è preparata a un evento psichicamente traumatico come un’aggressione brutale”. Siamo così poco disposti ad ammettere la violenza nelle nostre vite che se ci si para di fronte i nostri recettori non reagiscono come ci aspetteremmo, non sappiamo come comportarci, ci appanniamo. È come quando un attacco verbale ci prende in contropiede: non riusciamo a rispondere subito, farfugliamo qualcosa e dentro di noi ci malediciamo per non aver agito con prontezza. I protagonisti di questa storia, però, con il caso di Kabobo non c’entrano niente; sono una famiglia borghese come tante altre, soltanto un po’ più stabile e felice della media. Lui è uno stimato neurologo dell’ospedale di Lucca, lei una logopedista “amabile e vegana”, il figlio un ragazzino che frequenta il liceo con ottimi voti ma ancora incagliato nelle secche della preadolescenza. Abitano in una confortevole villetta prefabbricata a zero emissioni, hanno una bella macchina e pochi problemi. Anche per loro, come per la maggior parte di noi, la violenza è un pensiero lontano, una spiacevole escrescenza della società che usando il buon senso e con un po’ di sopportazione è possibile tenere alla larga. Eppure, nonostante i Ricci facciano di tutto per evitarla, si comportino bene e non perdano occasione di mostrarsi posati e ragionevoli, la violenza viene a bussare alla loro porta. Si manifesta attraverso le minacce di un vicino di casa pericoloso, il velato mobbing dell’anziano primario di neurologia, le molestie fisiche che Barbara subisce in un ristorante sotto gli occhi del marito.
La violenza, in questa storia, si comporta come un demone che elegge i Ricci vittime sacrificali di un disegno dettato dal caso. Anche se non succede nulla di troppo vistoso e la vita quotidiana della famiglia procede sorniona insieme all’intreccio, l’atmosfera del libro si fa sempre più cupa, elettrica, densa di presagi negativi e segnali di un equilibrio che da un momento all’altro potrebbe essere compromesso, e Bacà è molto abile nel restituire questo stato di tensione progressiva. La violenza qui è come un serpente che si prepara ad attaccare la preda, ma senza fretta: la avvolge nelle sue spire e aumenta la pressione pagina dopo pagina. Questo almeno fino a quando Davide, il capofamiglia, decide di averne abbastanza e dà inizio alla sua trasformazione, oltre che al rovesciamento del romanzo. Sotto la guida di un misterioso monaco-guerriero buddista che da un giorno all’altro entra nelle loro vite, impara ad accettare la violenza non come una minaccia, ma come un potere da amministrare con saggezza. Capisce che non è più il momento di subirla, ma di cavalcarla.
Se la trama è ridotta all’osso, lo stesso non si può dire per tutto il resto. Ancora meglio che in Benevolenza cosmica, Bacà ha affinato una lingua elegante ma sempre asciutta, fredda, uno stile a cui non servono la ridondanza o l’eruditismo per dimostrare l’intelligenza del pensiero che ha dietro. Di Nova colpisce sopra ogni cosa la vividezza dei personaggi, animati da una natura più speculativa che illustrativa, e quindi la rara qualità tecnica dei dialoghi che intrattengono; le loro conversazioni sono così intense che più volte sembrano discostarsi di qualche grado dai principi del realismo: Bacà ha ripulito la sua letteratura da ogni convenevole, dalle formalità e dalle frasi convenzionali dette per educazione, anche quando chi sta parlando si conosce a malapena. Si va subito al sodo, insomma, ed è un sodo densissimo, composto di pensiero scientifico, di esistenzialismo e acuti filosofici, di botta e risposta che rivelano una certa capacità dell’autore di assorbire i frame culturali del nostro presente.
Spesso noi lettori ci culliamo nella convinzione che i libri debbano dare risposte puntuali ai problemi che presentano, e che chi scrive debba garantire soluzioni soddisfacenti ai punti di domanda che ha sollecitato, ma è un abbaglio. Bacà prende in esame l’irresolutezza della violenza nella società occidentale, mette in scena dei personaggi, li semantizza di significati complessi e li pone a contatto con ciò che a loro è ignoto, al di fuori dalla proverbiale zona di comfort; consapevole dei limiti della letteratura, però, si guarda bene dallo sciogliere i nodi. Nella pratica del buddismo zen che il monaco impartisce a Davide, un koan è “una questione paradossale e insolubile, il cui scopo è paralizzare la mente dell’allievo per evidenziarne i limiti procedurali”. È come un indovinello o un rompicapo, di fronte al quale tuttavia non c’è altra scelta che interrompersi e arretrare. Proprio come con il silenzio di chi quella notte è stato aggredito da Kabobo, come il tremendo dilemma etico a cui sarà inchiodato Davide alla fine del libro, come quella fiammella di violenza che forse continua a dormire indisturbata dentro di noi.
matteo.fontanone@gmail.com
M. Fontanone è italianista e consulente editoriale