Emmanuel Carrère – Yoga

Con serafica dovizia di particolari

di Luca Bevilacqua

Emmanuel Carrère
Yoga
ed. orig. 2020, trad. dal francese di Lorenza Di Lella e Francesca Scala,
pp. 312, € 20,90
Adelphi. Milano 2021

Per prestare a Carrère parole che non sono le sue, ma potrebbero esserlo: “Io sono una persona malata… sono una persona cattiva”. È l’incipit delle Memorie del sottosuolo di Dostoevskij. E poi un verso di Baudelaire: “Io sono la piaga e il coltello!”. Proprio come per il poeta dei Fiori del male, autore poi di quel meraviglioso libro rimasto per sempre un progetto, Il mio cuore messo a nudo, viene da chiedersi cosa potrà scrivere Carrère dopo Yoga, cioè dopo un excursus tanto lucido e capillare nell’abisso della propria anima. Si brucerà le cervella? (Secondo la formula di Barbey D’Aurevilly). Tornerà a inventare storie come faceva nei suoi primi libri fino a La settimana bianca (1995: Eianudi, 2004)?

L’esistenza più intima, il sottofondo monotono e le note più stridenti dell’attività mentale, l’irrequietezza e l’incubo della follia, dello sfaldamento irreversibile. Ma anche il sesso, e anzi il meglio che la vita abbia offerto in quel campo. E poi la rievocazione di alcune amicizie importanti, di lutti dolorosi e recenti: tutta questa materia incandescente – grosso modo gli ultimi dieci anni di Carrère – presa e data in pasto al lettore con serafica dovizia di particolari. Per dichiarare infine, o nel frattempo, alcuni fallimenti scandalosi e irrimediabili: l’impossibilità dell’amore per l’altro, il talento innato per rovinare ogni volta la propria vita affettiva: quella piccola roccaforte di serenità (il secondo matrimonio) realizzata quasi inaspettatamente, ma abbattuta con l’inesorabile puntualità dei grandi narcisisti. O dei grandi malati. Tutto questo deve lasciare, al di là di qualsiasi successo editoriale, un vuoto spaventoso dentro. Non è la depressione (raccontata nella parte centrale di Yoga) la patologia predominante del libro. Il morbo che lo rende così vero e avvincente, cioè vicino a ogni lettore, al di là dell’eventuale interesse per la meditazione buddhista o il tai chi, è piuttosto quel meccanismo ostinato di autosabotaggio. Che comincia nel momento stesso in cui Carrère accarezza l’idea d’un volume che sia, per una volta, qualcosa di facile, “arguto e accattivante”: un libricino appunto sullo yoga, pratica di cui vanta pluriennale esperienza. Prima ancora di aver scritto una pagina, l’autore racconta di aver pregustato il successo futuro del libro, concependo in anticipo una snella e succosa quarta di copertina (trascritta fra virgolette come un documento da mettere agli atti, quasi a ridicolizzare se stesso). Sul momento si compiace, Carrère, della sua ingegnosa trovata. E non immagina – proprio lui che lavora sul tema da tutta una vita – con quanta ingenuità stia consegnando il coltello nelle mani del nemico, dell’avversario. Fin dal principio, infatti, gli esercizi di meditazione e respirazione sono spiati da uno sguardo autogiudicante che si fortifica quanto più Carrère tenta di dissolverlo respirando. Gli esercizi sono insomma il rimedio, ma paradossalmente anche il problema. L’io, anziché mescolarsi orientalmente col tutto, si enfatizza e appare ogni volta più infelice e solitario. Il pensiero si fissa sul dettaglio, sulle implicazioni del dettaglio, sulle ipotesi per cui il dettaglio potrebbe comunque armonizzarsi in quella visione più ampia e pacificante che la percezione del flusso d’aria nelle narici dovrebbe in qualche modo favorire.

La scelta impegnativa di iscriversi a un ritiro spirituale Vipassana, della durata di ben dieci giorni, poggia su una motivazione che pare anch’essa non proprio soddisfacente, e anzi attraversata da dubbi che sono come sottili crepe. Rivelandosi presto per ciò che essa realmente è: una sfida agonistica, solipsistica, lanciata a se stesso e alla capacità di sopportare tanta noia, sia interna che indotta dagli altri partecipanti al ritiro. Come andrà a finire? Riuscirà a resistere per tutta la durata prevista, tenuto conto che non ha con sé un libro, né carta per scrivere, né tantomeno il computer o il telefono?

Lo scrittore Carrère, che a differenza dell’uomo non è affatto malato, ma di cui conosciamo al contrario la piena salute e fecondità (Yoga è il suo quindicesimo libro), gioca magistralmente con la suspense legata alla situazione: la capacità di resistere all’assenza di eventi, sottraendosi alle tentazioni e alle decisioni, ingegnandosi in tutti i modi per fronteggiare se stesso. Al contempo è descritta la grottesca e artificiale serenità imposta dagli organizzatori ai partecipanti, ai quali è stata ingiunta una stretta regola monastica che vieta ogni contatto interpersonale e dispone la separazione – un confine invalicabile – fra lo spazio destinato agli uomini e quello per le donne. Nel corso del racconto, che implica alcuni cambi di scenario (oltre all’esperienza nella clinica psichiatrica, un soggiorno nell’isola greca di Leros), Carrère accumula varie definizioni della meditazione. Verso la fine ne offre un riepilogo, e sono più di venti. Una recita semplicemente: “fare attenzione”. Parola tra le più ricorrenti del libro, “attenzione”. Una delle chiavi, anche, per entrare nel suo modo di narrare: lo sguardo che scruta ogni minimo movimento dell’interiorità. Forse Carrère vivrebbe meglio, ma sarebbe un assai più modesto scrittore, se riuscisse a distrarsi ogni tanto, se la sua coscienza allentasse la presa. Era quanto notava già Sartre a proposito di Baudelaire: “A noialtri basta vedere l’albero o la casa; tutti assorti nel contemplarli, dimentichiamo noi stessi. Baudelaire è l’uomo che non si dimentica mai”.

Ma questa attitudine lirica, che riconduce continuamente all’io, ai ricordi e miti personali, ciò che vede o conosce per la prima volta, non risulta asfittica né ridondante. Anche se è proprio questa l’accusa di chi non ha apprezzato il libro: Carrère guarda troppo il suo ombelico (ma di quanti artisti dovremmo dirlo?). Nondimeno proprio l’estrema attenzione, il controllo, fanno sì che l’intento – dichiarato esplicitamente – di scrivere ciò che gli passa per la testa non si dissolva in uno scialbo accumulo di memorie e impressioni. Proprio come Montaigne, invocato come “santo patrono” (suo e di molti altri scrittori), Carrère possiede un’arte rara e per così dire leggera di parlare in modo semplice e diretto di cose che a prima vista parrebbero impossibili da dire con semplicità: il proprio mondo interno, le abitudini, le incongruenze, i talenti ma ancor più le debolezze, le zone d’ombra e di sofferenza. Tutto questo senza procurare mai l’idea di dover inventare niente di nuovo sul piano letterario, né di dover piacere per forza. Si dipinge come un narcisista, sensibile alla vanagloria per via del successo. Ma sulla pagina possiede una grazia particolare, in virtù della quale l’intelligenza si palesa con tono sommesso, quasi umile. Carrère si rivolge al lettore direttamente, racconta piano piano la genesi del suo libro, sostiene di dire tutta la verità, a un certo punto cambia idea e afferma di aver inventato due personaggi. Non gli crediamo. E comunque lo perdoniamo.

Non deve essere facile trasportare da una lingua all’altra questo stile in apparenza piano e confidenziale, una limpidezza (una “clarté”) molto francese. Ma le due traduttrici, Lorenza Di Lella e Francesca Scala, assolvono magnificamente il compito. Molte pagine catturano, e sono destinate a imprimersi nella memoria. Come quella in cui Carrère rievoca l’ascolto a due (ma anche l’esecuzione) di una sonata di Chopin, L’Eroica. Un piccolo exploit letterario che richiama, per analogia, le pagine dedicate da Proust nella Recherche alla sonata di Vinteuil.

lucabevi@yahoo.it

L. Bevilacqua insegna letteratura francese all’Università Tor Vergata di Roma