Il massimo nell’immaginazione
di Massimo Castiglioni
Emanuele Trevi
Due vite
pp. 140, € 12,50,
Neri Pozza, Vicenza 2020
I libri di Emanuele Trevi, una parte almeno, possono essere letti come un’unica opera in divenire. Si tratta di testi che, con singolare armonia, mescolano il saggio alla memorialistica, le suggestioni romanzesche all’autobiografia, e che rappresentano momenti diversi di un lungo confronto con un materiale complesso e difficile da gestire come quello personale, biografico. Già in Senza verso (Laterza, 2004), o nell’ultimo Sogni e favole (vincitore del Premio Viareggio, Ponte alle Grazie, 2019), per fare qualche esempio, vengono chiamate in causa personalità che in una maniera o in un’altra hanno rivestito un ruolo importante per l’autore, e la cui evocazione, da parte della scrittura, segue un duplice atteggiamento: da un lato il tentativo di avvicinarsi a queste vite e di cogliere quei tratti che le rendevano uniche, dall’altro il comprendere l’importanza che assumono nei ricordi di chi li ha conosciuti: un’operazione tanto complessa quanto affascinante. Non è facile parlare di una vita, figuriamoci di due vite, tanto più che bisogna capire bene di cosa si sta parlando. Le Due vite del nuovo titolo di Trevi sono certamente quelle di Rocco Carbone e Pia Pera, lui scrittore e critico letterario, lei a sua volte scrittrice e traduttrice; due intellettuali che occupano una posizione niente affatto secondaria nella sfera sentimentale di Trevi e che nel libro si alternano e si incrociano. Ma non si tratta solo di questo: “Perché noi viviamo due vite, entrambe destinate a finire: la prima è la vita fisica, fatta di sangue e respiro, la seconda è quella che si svolge nella mente di chi ci ha voluto bene”. Non solo due vite dipinte da un punto di osservazione privilegiato e dolente, quello di un amico affettuoso, ma soprattutto quanto di queste rimane. A esse, inoltre, e inevitabilmente, si accosta una terza, non dichiarata nel titolo ma onnipresente: quella del narratore, dell’uomo che ha conosciuto entrambi, che descrive le loro figure, le insicurezze, i momenti passati insieme e le tragiche conclusioni delle loro esistenze aprendo un dialogo con quei pezzi residui di memoria e con quanto di essi si faccia ancora sentire con ostinazione. Raccontare due amicizie così importanti significa soprattutto raccontare il rapporto con esse, i dispiaceri, i malumori, le gioie e soprattutto i rimpianti; significa gettare una luce critica su questo rapporto, sulle mancanze proprie di ogni dimensione affettiva anche quando sembra difficile mettere tutto a fuoco.
Un modo per affrontare la questione lo dichiara Trevi stesso: “L’unica cosa importante in questo tipo di ritratti scritti è cercare la distanza giusta, che è lo stile dell’unicità”. Vero. Peccato che la ricerca di questo stile sia tutt’altro che semplice, e quando si è di fronte al racconto di vicende reali si deve anche far fronte al problema del non detto. Tutto ciò che è stato scritto risponde a un criterio di verità, per quanto parziale, e non si vuole certo contestare ciò che l’autore dice; ma ogni riga che ci spiega il difficilissimo carattere di Rocco Carbone (sicuramente, rispetto all’altra, più presente e più problematico), o che ci racconta gli ultimi anni di Pia Pera, può implicitamente far pensare al non scritto, a ciò che il narratore, volente o nolente, consapevole o meno, ha omesso, a elementi che è stato preferibile tacere. Il ruolo della voce narrante, da un certo punto di vista, è allora più interessante degli stessi protagonisti, comunque fondamentali. Non è un caso che in più di un’occasione si presentino considerazioni sulla scrittura: dato il tipo di lavoro che si sta svolgendo, e le problematiche che porta con sé, può essere utile ritagliarsi uno spazio di pura riflessione che andrà automaticamente a connettersi con la storia dei due amici.
Ma al di là di ciò che è stato scritto o non scritto, al di là di cosa è stato scelto di raccontare, probabilmente il punto è un altro “Scrivere di una persona reale e scrivere di un personaggio immaginario alla fine dei conti è la stessa cosa: bisogna ottenere il massimo nell’immaginazione di chi legge utilizzando il poco che il linguaggio ci offre”. E questo poco che viene offerto dal linguaggio ha allo stesso tempo la funzione di richiamare i due amici più che di raccontarli, di restituire per un istante la vita là dove non c’è più: “Di una cosa sono sicuro: mentre scrivo e fintanto che me sto seduto a scrivere, Pia è qui, la sua presenza è ingombrante come quella del tavolo, o della lampada (…). Ne deduco che la scrittura è un mezzo singolarmente buono per evocare i morti, e consiglio a chiunque abbia nostalgia di qualcuno di fare lo stesso: non pensarlo ma scriverne”. In questo senso, al di là del ruolo imprescindibile che ha nel salvaguardare la memoria, la letteratura diventa non la portatrice di verità assolute, ma sceglie il suo terreno privilegiato nella verità (o presunta tale) della singola esperienza personale. Una verità tanto più complessa e sfuggente quanto più si guarda nella contraddittoria profondità di una vita, o di due vite, o anche di più.
massimo1812@gmail.com
M. Castiglioni è saggista