recensione di Simone Gambacorta
Domenico Calcaterra
L’anno del bradipo. Diario di un critico di provincia
pp. 352, € 25
Inschibboleth, Roma 2021
La vita, come si sa, non contempla l’intatto. E nel continuo infrangersi che il suo accadere comporta, è possibile scorgere vie per convertire in lingua un’esperienza del mondo. La dimensione individuale può così istituirsi come voce, e generare un dire capace d’intonarsi empaticamente a un alfabeto umano che sia eloquente erga omnes. Dalla sua Sant’Agata di Militello, in Sicilia, incalzato da un “sismologico impulso” a raccontarsi, Domenico Calcaterra ha dato ascolto al suo privato e l’ha riversato nel libro L’anno del bradipo. Diario di un critico di provincia. Di quel privato, giorno per giorno, ha fatto la materia prima di un esercizio di fedeltà, filtrandolo nel rito diaristico di una parola ansiosa di farsi sguardo sull’esistenza e di approfondire, trapiantandoli in scrittura, i tratturi del quotidiano. Il “mestiere di critico” e il “lavoro d’insegnante” s’intersecano continuamente e se raffronti come quello tra Consolo e Perriera, antichi e solidi amori di Calcaterra, dicono molto sui due scrittori, ancor più testimoniano sulle possibilità di adiacenza tra vita e letteratura, nel segno di quella “critica della vita” di cui parla Massimo Onofri nell’importante La ragione in contumacia. “Se Consolo rappresentò per me l’impegno con la letteratura, l’oltranza barocca della lingua, in una parola il padre; Perriera è stato il radioso mentore della scarcerazione da ogni zavorra ideologica, in nome della libertà di spirito e di visione, la luminosità dell’intelligenza”. Nel journal calcaterriano, dove l’immagine e il suono contano tanto quanto la parola, i ritmi dei giorni diventano un ambiente che la scrittura restituisce come paesaggio del vissuto e come relazione tra cose, memorie e persone, nel combinarsi di letteratura, cinema, musica e fotografia.
Nell’era del non argomento, con la “distorsione cognitiva di massa” e le “giovani marmotte che invadono il web”, Calcaterra sceglie l’argomento eticamente massimo, cioè una complessità di visione che si ricrei attraverso i circuiti della prima persona e che sia anzitutto densità di sentire. Sicché il suo libro è anche il diario di un naufrago che se ne sta in acque extraterritoriali rispetto a quelle dell’imperio social, dove a vigere sono lo sloganismo (assertività d’effetto che esclude il concetto), il superlativismo (esasperazione della lode quale ostentazione di un preteso potere di giudizio), l’intensismo (struggimenti assai grossier) e un lacapriano “concettualismo degradato di massa”. L’anno del bradipo è dedicato “agli involati”, “ai vivi e ai morti”, e difatti il senso della perdita (intesa, nell’accezione che Pasternak ne dà nella sua Autobiografia, quale esperienza di crescita) lo pervade intimamente e ne fa una meditazione sui destini e sui volti che assumono nella lotteria biologica della vita. “Mentre scrivo, a dissipare il seme della commozione e a infondermi uno sconosciuto accento di gioia sono le note del coro finale della Passione secondo Matteo di Bach (…), che mi fanno pensare al signor Rino B., a Basilisca, all’Aviatore, a tutti gli involati in fuga dalle lacrime di noi che restiamo qui seduti a terra”. Con L’anno del bradipo, Calcaterra s’inserisce in una linea che, a volerla abbozzare, si può dire annoveri maestri come il Bo del Diario aperto e chiuso, il Milano delle Note in margine a una vita assente, il Vittorini del Diario in pubblico, lo Sciascia di Nero su nero e l’Onofri dei Sensi vietati e Nuovi sensi vietati (ma anche Benedetti Toscani, Passaggio in Sardegna, Passaggio in Sicilia). Da qui, un estuario di affinità e consonanze che porta, per esempio, all’Andrea Di Consoli del Diario dello smarrimento, anch’esso pubblicato nella collana “Margini” diretta da Filippo La Porta.